«Andrò alla
ricerca della
tomba di Manolo»

Guido Viscardi all’uscita della prima udienza del processo contro Manolo: «Devo sapere dove è sepolto»
Guido Viscardi all’uscita della prima udienza del processo contro Manolo: «Devo sapere dove è sepolto»
Guido Viscardi all’uscita della prima udienza del processo contro Manolo: «Devo sapere dove è sepolto»
Guido Viscardi all’uscita della prima udienza del processo contro Manolo: «Devo sapere dove è sepolto»

«Se occorre andrò fino in Serbia a cercare la verità. Voglio vedere dove è sepolto, voglio chiedere di riesumare la salma, ammesso che esista, ma tanto so già che mi diranno che è stato cremato. Alla fine troverò conferma a ciò che per istinto so già essere una certezza: quella persona è ancora viva e sta facendo dell’altro male».

Guido Viscardi, l’unico sopravvissuto alla strage di Torchiera del 16 agosto 1990, non corre dietro a un fantasma, anzi a uno spettro. «Sente» che Ljubisa Vrbanovic non è morto, a dispetto del certificato di decesso trasmesso dalle autorità serbe al tribunale di Brescia, dove si sta celebrando il processo per l’omicidio di Giuliano Viscardi, 57 anni, della moglie Agnese Maringoni, 53 anni, e dei figli Luciano e Maria Francesca, di 27 e 22 anni. La parte più pregnante dell’incartamento su Manolo, ribattezzato la belva dagli occhi gialli, è scritto in cirillico. Per questo il tribunale ha affidato ad un esperto l’incarico di tradurlo.

«DELLE SCARTOFFIE non mi fido più, credo solo ai miei occhi - taglia corto Guido Viscardi -. Lui mi ha tolto tutto, ha sterminato la mia famiglia e io ho diritto di sapere che fine ha fatto e nel caso sia davvero morto conoscere come è morto e dove è sepolto. Non voglio essere perseguitato dall’incubo di ritrovarmelo davanti». La fine di Manolo è per ora avvolta da un alone di mistero, come tanti episodi che hanno scandito l’esistenza del criminale.

«Mi faccio tante domande da un quarto di secolo - ammette l’allevatore di Torchiera -. E più non riesco a trovare risposte plausibili, più mi convinco che questo serbo avesse delle coperture. Perché non è stato ucciso durante il conflitto a fuoco con la polizia serba in cui è morto il nipote, complice dell’assassinio della mia famiglia? Perché pochi giorni prima dell’irruzione a Torchiera è stato rilasciato dopo un arresto per furto di auto, nonostante fosse sospettato di cinque omicidi? Perché gli è stata annullata la pena di morte? È stato solo fortunato? Speravo che il processo a Brescia facesse piena luce sui tanti, troppi punti oscuri della strage. Invece...». Invece il procedimento giudiziario è destinato ad essere estinto per morte dell’imputato.

«Ho sempre avuto l’inquietante sensazione che la verità sull’omicidio dei miei familiari fosse deformata o nascosta da qualche forza invisibile - osserva Guido Viscardi -. Non mi riferisco solo ai retroscena emersi dalle Commissioni Stragi dell’epoca, ma anche a questioni di attualità. La Serbia deve entrare in Europa e vuole evidentemente ripulirsi l’immagine, facendo scomparire persone scomode. Lo capirebbe anche un bambino: nell’era dell’informatica, non è credibile che pochi giorni prima del processo a Brescia fosse irreperibile e poi all’improvviso spunti un certificato di morte. Ma dove è morto? In carcere, dove avrebbe dovuto essere per scontare la pena? Non mi farò prendere in giro ancora una volta: la memoria della mia famiglia merita il rispetto della verità».

LA NOTIZIA DEL DECESSO di Manolo ha reso più vividi i dolorosi ricordi di Guido Viscardi. «In realtà, non passa giorno in cui non ripensi al martirio dei miei genitori, a Luciano e Maria, ammazzati come animali. Così uccide solo l’Isis, ma prima di loro così uccidevano i serbi durante la pulizia etnica. Un mestiere che l’assassino della mia famiglia evidentemente sapeva fare bene, visto che - e questo lo so per certo da fonti giudiziarie -, durante la guerra dei Balcani Manolo è stato scarcerato dalle autorità con altri criminali serbi per fargli svolgere il lavoro sporco».

GUIDO VISCARDI si guarda indietro e si rende conto di aver dovuto percorrere da solo un’angusta strettoia. «Mentre mi portavo addosso il fardello del dolore, ho dovuto subire umiliazioni e ingiustizie: penso a quando sono stato chiamato a Roma per parlare del mio caso, e nessuno dei parlamentari o senatori si è degnato di dedicarmi un minuto, ad eccezione di Eugenio Baresi. Penso al primo processo-farsa in Serbia - incalza sfogliando l’album dei ricordi -. Ho ancora negli occhi e nelle orecchie la risatina e lo sguardo di compatimento nei miei confronti del giudice che avrebbe poi condannato Manolo a 15 anni».

In appello per Ljubisa Vrbanovic scattò il verdetto di pena di morte per fucilazione, una condanna poi commutata in 40 anni di reclusione dalla Corte suprema.

«In tutto questo tempo non siamo mai stati sicuri che stesse pagando con il carcere l’omicidio della mia famiglia - rimarca Guido Viscardi con amarezza e indignazione -, ad un certo punto nessuno sapeva neppure dove fosse. Sono cose che ti minano l’animo e mettono a dura prova la tua coscienza quando qualcuno in Serbia ti fa capire fra le righe che con 50 milioni di lire dell’epoca si poteva far eliminare l’omicida della mia famiglia. Non lo avrei mai fatto, sia chiaro, ma qualcosa in te freme quando sai che avresti l’opportunità di farlo. Mi è toccata questa cosa tremenda ma un insieme di circostanze l’ha resa se possibile ancora più insopportabile».

A SALVARE GUIDO Viscardi dall’abisso del dolore sono stati la sua famiglia e il lavoro: «Continuare a fare l’allevatore, il mestiere di mio papà, mi ha aiutato a tirare avanti, così come il conforto delle persone che mi sono state vicine. Ma non sono mai riuscito a voltare pagina. Non si può voltare pagina, senza sapere esattamente che fine ha fatto chi ti ha ucciso la famiglia».R.PR.

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