Green Hill, sentenza
d’appello: «Imputati
tutti consapevoli»

di Mario Pari
Beagle al palagiustizia a Brescia in occasione di un processo FOTOLIVE
Beagle al palagiustizia a Brescia in occasione di un processo FOTOLIVE
Beagle al palagiustizia a Brescia in occasione di un processo FOTOLIVE
Beagle al palagiustizia a Brescia in occasione di un processo FOTOLIVE

Sono servite ben 97 pagine per motivare la sentenza con cui la Corte d’appello di Brescia ha confermato la condanna inflitta in primo grado ai vertici di Green Hill, l’allevamento di Beagle. Un anno e sei mesi di reclusione erano stati inflitti alla rappresentante legale della società di Montichiari, Ghislaine Rondot, e al veterinario aziendale Renzo Graziosi. Pena di un anno (sospesa, come per gli altri due condannati) a Roberto Bravi, direttore di Green Hill. Queste le decisioni prese in primo grado e confermate in quello successivo il 23 febbraio scorso. Ora le motivazioni della sentenza d’appello.

NELLE «POSIZIONI soggettive» viene evidenziato che «tutti e tre gli imputati erano consapevoli della situazione e delle condizioni dell’allevamento, il Graziosi e il Bravi che erano presenti ogni giorno in Green Hill e dunque avevano piena contezza delle problematiche relative alla gestione del canile. La Rondot, benchè non fosse presente quotidianamente, era tuttavia costantemente informata dal Bravi e dal Graziosi».

Dai giudici è stata considerata «di rilievo per la posizione della Rondot la mail ove la stessa, con riferimento ad una futura ispezione Asl, chiudeva la lettera dicendo “speriamo che non faccia troppo caldo!“, a riprova del fatto che era ben consapevole della eccessiva temperatura estiva nei capannoni, sulla quale del resto era costantemente informata dagli altri due imputati».

NEI PROFILI GIURIDICI si sottolinea poi che «non possa dubitarsi che i cani beagle ospitati in Green Hill siano stati sottoposti a comportamenti insopportabili per le loro caratteristiche etologiche. Venivano costretti a vivere in capannoni troppo freddi d’inverno ed eccessivamente caldi d’estate, i box erano spesso sporchi ed imbrattati di feci, stabulavano insieme cani sani e cani affetti da patologie come la demodicosi o malattie intestinali». A tutto ciò va aggiunto, è scritto ancora nelle motivazioni, che «i cani, anche quelli ammalati, venivano sostanzialmente abbandonati a se stessi durante la notte, vi erano numerosissimi casi di decesso per ingestione di segatura, soprattutto tra i cuccioli, e i cani affetti da rogna demodettica non venivano adeguatamente curati con medicine aziendali, in quanto non era economico curare cani che sarebbero poi divenuti invendibili».

Secondo la Corte d’appello di Brescia ci si trova di fronte «ad una precisa scelta aziendale di contenere i costi che sarebbero derivati da un adeguamento della struttura alle esigenze connesse ad un numero così elevato di cani».

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