«A Nikolajewka sulle tracce dei nostri nonni»

di William Geroldi
Roberto Bettinsoli davanti al sottopasso di NikolajewkaIl cippo che ricorda caduti e dispersi di entrambi gli schieramentiUn momento di riposo della marcia verso NikolajewkaRoberto Bettinsoli e Christian Abate a Livenka, l’ex Nikolajewka
Roberto Bettinsoli davanti al sottopasso di NikolajewkaIl cippo che ricorda caduti e dispersi di entrambi gli schieramentiUn momento di riposo della marcia verso NikolajewkaRoberto Bettinsoli e Christian Abate a Livenka, l’ex Nikolajewka
Roberto Bettinsoli davanti al sottopasso di NikolajewkaIl cippo che ricorda caduti e dispersi di entrambi gli schieramentiUn momento di riposo della marcia verso NikolajewkaRoberto Bettinsoli e Christian Abate a Livenka, l’ex Nikolajewka
Roberto Bettinsoli davanti al sottopasso di NikolajewkaIl cippo che ricorda caduti e dispersi di entrambi gli schieramentiUn momento di riposo della marcia verso NikolajewkaRoberto Bettinsoli e Christian Abate a Livenka, l’ex Nikolajewka

William Geroldi «Un’emozione indescrivibile affondare in quella neve, lungo il percorso battuto dai nostri nonni nella ritirata di Russia; tra loro c’era anche il mio, Antonio, tornato da quell’inferno». Roberto Bettinsoli, 52 anni, di Sarezzo, alpino di leva a San Candido, a sua volta nipote di una «penne nera» della divisione Vicenza, classe 1917 «andato avanti» nel 2000, ha camminato dalle rive del Don dove era attestata l’armata italiana nell’estate del 1942 fino a Nikolajewka, oggi Livenka, l’ultimo ostacolo, l’ultimo bagno di sangue verso la libertà riconquistata dall’Armir il 26 gennaio 1943. Erano in undici, Roberto, il lonatese Christian Abate e altre nove persone da tutta Italia: «È nata una bella amicizia - racconta Roberto - cresciuta nel corso di una marcia di sei 6 giorni, circa 150 chilometri complessivamente, in alcuni momenti sotto una nevicata così intensa che facevamo fatica a muoverci». Neve, soltanto neve, ovunque «in quei momenti non potevamo non pensare in quali condizioni i soldati italiani hanno affrontato la ritirata». Temperature? «Fino a - 22 sotto zero, ma noi eravamo ben coperti, ben equipaggiati, loro no...». Per tetto la notte le isbe, prenotate prima della partenza, dimore simili nel nome a quelle della guerra, ma ora di gran lunga più accoglienti, dove il gruppo ha trovato un sicuro rifugio: «Alla sera - confida Roberto - leggevamo i nomi di quei luoghi, con le battaglie dei nostri soldati». E le persone incontrate? «Non molte per la verità, certo ci salutavano, sorridevano, quando sapevano del viaggio». Nessun contatto con le autorità, un viaggio intimo, rammenta Roberto che il 26 gennaio davanti al sottopasso ferroviario di Nikolajewka si è sentito stringere il cuore: «Là sotto nel 1943 è stato un massacro, tanto che ad un certo punto il tunnel era bloccato dai corpi, poi per la disperazione quel fiume di persone ha scavalcato il terrapieno e si è riversata sui russi che non si aspettavano un assalto di quelle dimensioni». Poco distante, oltre la ferrovia, un cippo con le scritte in italiano e russo ricorda la carneficina, i corpi sepolti in fosse comuni, la speranza forse ormai vana di scoprire la sorte dei troppi soldati che ancora mancano all’appello. Due sono usciti dall’ade, due piastrini con nome e cognome («ma preferisco non rivelarli, aspettiamo prima» declina Roberto), sono stati consegnati agli italiani che ora proveranno a rintracciare i parenti. • © RIPRODUZIONE RISERVATA

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