L'intervista

Adelio Terraroli: «La mia vita di battaglie»

di Massimo Tedeschi - Bresciaoggi 24 luglio 2011

Intervista di Massimo Tedeschi pubblicata su Bresciaoggi del 24 luglio 2011

Adelio Terraroli, forse l’ultimo «grande vecchio» del Pci bresciano, oggi compie 80 anni esatti. Lo festeggeranno la moglie Amedea Gianotti, reggiana «doc», i figli Valerio e Monica, i nipoti. Nato a Fiumicello, figlio di una ragazza madre - Pierina - cresciuto in famiglia con gli zii materni operai dell’Om iscritti al Pci, Terraroli era destinato a una vita da operaio: iscrizione alla Moretto e poi fabbrica. Invece... «Invece - racconta lui - una mia insegnante delle medie, moglie del repubblicano Tramarollo, convinse mia madre a iscrivermi all’Arnaldo. Al ginnasio mi trovavo male in mezzo ai figli di professionisti. Al liceo andò meglio, ebbi voti buoni e vinsi il concorso per il Ghislieri a Pavia. Due mesi dopo la laurea in legge lavoravo già alla federazione provinciale del Pci, allora in via Gramsci, dove oggi c’è il rettorato».

Quando ci fu la sua prima prova elettorale?

Nel ’56 a Ghedi. Nicoletto, che «era« il Pci a Brescia, era convinto che avremmo vinto le elezioni. Lui capolista, io numero due, secondo lui ero destinato a diventare sindaco. Prendemmo una legnata.

Il ’56 significa Ungheria...

A fine anno, sì. A Brescia pochi uscirono dal partito: ricordo Carminati, un intellettuale, e pochi altri. Chi tenne botta a Brescia fu soprattutto l’avvocato Negroni, che era sulla linea di Ingrao che firmò un famoso fondo sull’Unità, di cui poi si pentì, intitolato: «Da una parte della barricata».

Poi, dal ’60 al ’68, fu segretario della Federazione provinciale. Come uscì la sua designazione?

Nel ’60, mentre continuavano le polemiche sulla destalinizzazione, il partito e la Camera del lavoro erano spaccati. Il segretario uscente era Giordano Bruno Sclavo, braccio destro di Nicoletto nella guerra partigiana nelle Langhe. Quelli che erano vissuti nel mito di Stalin facevano capo a Nicoletto, Sclavo, Foppoli, Renata Bottarelli, poi giornalista dell’Unità, Giuseppe Romano. I rinnovatori erano Ilario Tabarri, Paolo Morchio della Fiom, Stefano Lucchini, Angelo Negroni. Io ero fuori dalla mischia, impegnato a costruire il partito in Valcamonica. All’VIII congresso, quello della «via italiana al socialismo», i rinnovatori puntavano su una segreteria Lucchini, i tradizionalisti su quella di Romano. Candidati che si elidevano a vicenda.

Naturalmente non si andò alla conta nel congresso...

No. Vigeva il centralismo democratico, una finzione. Così il partito mandò a Brescia Salvatore Cacciapuoti, campano, che si fece affiancare da Flavio Bertone, capo partigiano in Liguria. Lui sentì tutti e poi decise: «Facciamo segretario il ragazzino». Il ragazzino ero io.

Come se la cavò?

Riuscii a riunificare il partito. Bellissima esperienza. Infatti, caso raro, ebbi anche un secondo mandato quadriennale. Nel frattempo ci fu il suo debutto in Loggia, sempre nel ’60. Il nostro capogruppo era Angelo Negroni. Era lui, oggettivamente, l’antagonista di Boni. Insieme eravamo un po’ i due consoli in Loggia. Poi c’era Berruti, bravissimo. Per un certo periodo ci furono anche Nicoletto, la Bottarelli.

Com’erano i rapporti con Boni?

Molto leali, aperti, anche se le contrapposizioni erano inevitabili. Noi eravamo il partito dell’«interesse generale»: le battaglie erano tutte sulla tassa di famiglia, sul caro-vita. In urbanistica invece prevalse a lungo la linea di Negroni, secondo cui tutto ciò che dava lavoro nell’edilizia faceva bene alla città. Tant’è vero che noi votammo a favore del Piano regolatore Morini. Uno scempio. Chi ci aprì gli occhi su questi temi fu Luigi Bazoli con le sue battaglie contro lo sventramento del Carmine e la cementificazione delle colline.

E sull’Asm com’era la vostra linea?

Il «partito responsabile» dedicava attenzione all’Asm, la curava. E infatti abbiamo sempre mandato gente di valore come Berruti, Tambalotti, Chiari. I socialisti, ai tempi della nazionalizzazione dell’energia elettrica, volevano nazionalizzare anche le municipalizzate. Noi del Pci ci opponemmo: le municipalizzate erano simbolo dell’autonomia, della potestà del Comune. Nel ’61 ci fu uno scontro: chiedemmo di votare separatamente il bilancio del Comune e quello dell’Asm. Boni capì e non si oppose. Noi votammo contro il bilancio comunale, per motivi politici, e a favore di quello dell’Asm, che seguiva l’interesse generale. Veniamo alle vicende interne al Pci.

Lei nasce amendoliano?

Al contrario: io, per un fatto sentimentale - direi di giovinezza - nasco ingraiano. La rottura fu al congresso del ’64. Ingrao chiese il riconoscimento del diritto al dissenso interno. Sentimentalmente mi entusiasmai. Poi la riflessione mi portò a ribaltare la mia posizione, mi scoprii amendoliano. E rimasi sempre lì.

Perchè eravate definiti «miglioristi»?

Era un’espressione dispregiativa coniata da Ingrao. Stava a significare che noi volevamo cambiare solo la superficie, non la «struttura» della realtà. Era un modo per trattarci da socialdemocratici.

C’erano riunioni di corrente?

Mai. Amendola sosteneva che non c’erano amendoliani.

I suoi rapporti con Napolitano?

Lo conobbi quando era responsabile del «lavoro di massa» del partito. C’era un contrasto fra la federazione e la Fiom di Morchio. Così lui, Lama e Scheda mi convocarono a Roma per un chiarimento. Poi Scheda venne mandato a Brescia, parlò con tutti. Alla fine Morchio fu mandato a Genova e a Brescia arrivò Pio Galli, che mise assieme i cocci.

Il suo ricordo di Berlinguer?

Freddo, ti teneva a distanza. Però aveva quella faccia da bambino e gli volevi bene. Se poi avevi un problema da sottoporgli, era apertissimo. Uno che però ti ascoltava sempre, molto comunicativo, è indubbiamente Ingrao.

Quando inizia la sua esperienza parlamentare?

Nel ’68. Venni letteralmente «mandato» in Parlamento. Io non ci volevo andare. Pensavo di aver attrezzato il partito, e infatti le elezioni del ’68 andarono molto bene, e credevo di avere ancora qualcosa da fare a Brescia. Il gruppo dirigente locale mi voleva ancora, ma stando lì oggettivamente facevo da «tappo» ai giovani, e questo il partito non lo ammetteva. Cossutta e Natta mi chiamarono e mi dissero che o andavo in Parlamento, dove Nicoletto aveva già fatto quattro legislature, o andavo a lavorare per il partito a Roma. Nicoletto, che era di una componente diversa dalla mia, mi disse: «Sei un pessimo segretario di federazione, ma sarai un ottimo deputato». E mi affiancò in campagna elettorale.

In fondo anche allora le candidature erano decise dall’alto...

No, le candidature erano discusse nelle assemblee di zona: meglio delle primarie. Dunque venni eletto alla Camera: nella prima legislatura, fino al ’72, fui nelle commissioni Lavori pubblici e Interni, dal ’72 al ’76 nella commissione Finanze, dal ’76 al ’79 in quella Agricoltura.

I rapporti con i bresciani?

Andavo d’accordo con tutti. Per fortuna non avevamo missini, Tremaglia era di Bergamo e con lui non ho mai parlato. Da Quilleri (Pli) a Savoldi (Psi), passando per Passoni del Psiup e i sei democristiani, i rapporti erano molto buoni. Ottimi nel caso di Salvi. Ero molto amico di Martinazzoli, che però era senatore.

Aria di compromesso storico?

Con Martinazzoli ci intendevamo in tutto. L’unica volta che ci fu uno scontro fu durante il rapimento Moro. Lui era a favore della trattativa, io quasi lo aggredii rimproverandogli che persino Salvi, il figlioccio di Moro, era per la fermezza, e che con quella posizione umanitaria lui finiva per schierarsi con Craxi, che aveva assunto una posizione strumentale. Dopo il Parlamento, arriva per lei l’esperienza in consiglio regionale.

Come avvenne?

Segretario regionale era Gianfranco Borghini. Io gli davo una mano, quando si profilò la necessità di sostituire il capogruppo in Regione. Il partito pensò a me e feci il capogruppo per cinque anni, Poi il ruolo toccò a Piero Borghini.

I fratelli Borghini sono stati suoi "figliocci" politici?

In fondo sì. Più Gianfranco che Piero, direi: lui studiava a Londra. Ma anche Marco Fenaroli, Beppe Bonino, Silvano Danesi, Edoardo Colombo, Lucio Moro, Pippo Cantarelli, Mario Abba.

Da una parte i miglioristi, dall’altra la Fiom. Scontri epici fra lei e Sabattini.

Pensi che Borghini ci definiva «Il gatto e la volpe». Gli scontri politici erano forti, la stima anche. Sabattini aveva una virtù rara: sapeva fin dove poteva tirare la corda. Era bravo. Sapeva fermarsi in tempo. Ci capivamo al volo: io sapevo dove voleva parare lui, e viceversa. Lui voleva che il partito fosse come la Fiom. Non ci riuscì.

Però nelle vertenze più "calde" vi schieravate con la Fiom.

Era inevitabile. Tranne una volta: alla Eredi Gnutti c’era una vertenza molto aspra, Cremaschi si irrigidì. Lo chiamai e gli dissi che ero pronto a convocare la cellula del partito in fabbrica e contrastare la sua linea. Lui cedette.

Con la presidenza del Coreco finiscono di fatto nel ’96 i suoi impegni pubblici. Prima c’era stato il crollo dell’Urss, la Bolognina. Come visse quegli eventi?

Non mi aspettavo la caduta dell’Urss, ma non avevo dubbi sulla direzione che avrebbe preso Gorbaciov. Però la situazione gli è scappata di mano. La fine dell’Urss non fu un lutto, ma una pacca bestiale.

Quali politici di oggi apprezza?

Stimo moltissimo D’Alema, anche se a volte mi fa arrabbiare. Stimo moltissimo Bersani: anche se non ha il carisma del grande capo sta facendo benissimo. La Bindi e la Finocchiaro sono due grandi donne.

Berlusconismo addio?

Lo sa qual è il dramma? Che l’alternativa nella società c’è, come hanno dimostrato le elezioni amministrative e il referendum. Manca la quadra politica. Mettere assieme Casini e Vendola è impossibile. Almeno oggi. In futuro, si vedrà...

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