INTERVISTA

Adriana Albertini: «Cuore giallo e cuore blu, la mia arte per la pace»

di Gian Paolo Laffranchi
Adriana Albertini
Adriana Albertini
Le creazioni: dall'ex voto per Ucraina alle Parole in petali

La materia vibra. Verità e visione. Il fremito di una ricerca che si fa ceramica e con la ceramica sa scolpire, e dipingere, un mondo intero. Adriana Albertini trasforma in arte anche questo tempo, suo e nostro. Sempre un passo avanti: paventava venti di guerra la sua Mavros Implosion, di un nero opaco. E auspica la pace, adesso, l’Ex Voto per l’Ucraina. Un cuore giallo, un cuore blu. «Per la pace». «Give peace a chance», ora e sempre; per riandare a quella saggezza delle radici, alla sensibilità che esorcizzava il primo lockdown con un progetto dedicato alla figlia Viola (8 anni nel 2020): motti latini e il volo di una rondine, «Free As a bird». Ex Voto Suscepto per reagire alla paura attraverso l’arte.

Artista, bresciana. E gussaghese Doc. Fiera di esserlo. La creatività è una vocazione?
Per me lo è stata. Già da piccola disegnavo. Ricordo che quando ero malata chiedevo a mia mamma di andare in cartoleria a prendere i bustoni dove c’erano tutti i lavoretti da fare con le mani, le figure da vestire...

Anche sua madre aveva spirito artistico?
Mia mamma aveva 5 figli: doveva pensare a quello. Io cercavo la creatività, non so se fossi portata ma quello volevo: esprimermi. L’altra grande passione era la natura, che sarà sempre più bella di ogni d’opera d’arte. Abitavo in una casa con un giardino grande, si potevano raccogliere i fiori come l’uva, fare le fascine, battere le mandorle. Era mio padre ad essere contadino nell’animo, anche se ha fatto carriera nell’industria. Si era comprato la terra per piantare peschi e ciliegi. Per noi figli l’anno era scandito dai lavori della campagna.

Il suo amore per l’argilla deriva da lì?
Sì. È il contatto con qualcosa di primordiale. Per me amare la natura è anche zappare la terra. Mi piace sporcarmi le mani, da sempre. Non che avessi voglia di rimestare il fieno, da bambina. Adesso lo considero uno dei più grandi regali che mio padre mi abbia fatto.

Scuole elementari e medie a Gussago.
Zona pedecollinare, luogo ameno. Ma ho fatto il liceo in città perché mio padre, uomo di spessore, ha spinto me che volevo fare l’artistico verso il linguistico: «Le lingue sono il futuro».

Difficile dargli torto.
Non volevo dargli retta, ma aveva ragione. Per l’università fui accontentata: lettere a Verona, un privilegio accordato al posto di Brera. Che avrei voluto tanto frequentare. Dopo un anno di lettere sono passata a lingue, di nuovo su indicazione paterna, e in lingue mi sono laureata. Finire gli studi mi ha aiutato, per esempio, a organizzare eventi al Centro Fiera di Montichiari.

Ma la ceramica?
Ho iniziato a seguire corsi di Silvia Zotta e Fausto Salvi, poi Livio Scarpella mi ha dato una scossa.

Da artista ormai lanciato, rivolgendosi ad un’artista in fieri.
Ha visto i miei progressi e mi ha incoraggiato:
ta la mochet de fa i corsi! Ta sét brava.
Così Scarpella da Ghedi. E io l’ho ascoltato. Le sue parole valgono molto, non è un complimentoso. Adesso stiamo organizzando una mostra insieme per ottobre, con Fausto Salvi e Remo Rachini.

Ricorda la sua prima scultura?
Non avevo ancora un forno, andai a cercarlo a Bagnolo Mella. E un giorno da quel forno uscì un pannello per casa mia che è ancora imballato: voglio lasciarlo a Viola. Lo esposi dai Monaci sotto le Stelle, in città.

Ci fu subito la benedizione di una storica e cronista d’arte come Marina Mojana.
Decisi di dedicarmi alla carriera artistica. A quel punto credevo in me stessa al punto di mollare il lavoro di organizzatrice di eventi, che pure mi aveva dato soddisfazioni.

La famiglia?
Mi ha supportato. In questo caso mio padre ha voluto aiutarmi: mi ha comprato il forno, gli smalti, l’attrezzatura. Alla fine mi ha dato fiducia. Le mie opere, per lui, erano le fretadine. Al primo articolo letto su di me mi chiamò: «Adriana! Sei brava!». Sì, papà. Perché ci ho creduto. Questo voglio insegnare a mia figlia: a crederci, credendo in se stessa. Per essere felice.

Dopo averla aiutata a capire cosa stava succedendo durante la pandemia.
Quelle opere, legate all’esplosione del Covid, mi piacerebbe esporle in città. Quella favola aveva un senso. I bambini capiscono, basta spiegare. Ascoltano e restano estasiati. Visto anche il tema, purtroppo ancora attuale, una mostra del genere potrebbe trovare posto nell’ambito delle iniziative per Brescia capitale della cultura nel 2023.
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