Bonetti, l’arte tradotta in colossali geometrie

di Alessandra Tonizzo
Classe 1951, Bonetti ha portato la sua critica del pensiero visivo nel mondo
Classe 1951, Bonetti ha portato la sua critica del pensiero visivo nel mondo
Classe 1951, Bonetti ha portato la sua critica del pensiero visivo nel mondo
Classe 1951, Bonetti ha portato la sua critica del pensiero visivo nel mondo

La metà si divide. La mèta si conquista. Nella «mèta-» si prefigge il prefisso dell’oltre, della partecipazione mutaforma. La posterità ragionata da Beppe Bonetti (Rovato, 1951) muove fluida attraverso enormi geometrie collassate: quegli «Aspetti della metarazionalità» che fanno scorrere i titoli di coda al conosciuto. L’artista e la sua celebre critica del pensiero visivo razionale (presente da Parigi a Osaka, e tra Seoul e Los Angeles, e dentro la miglior Italia) è arrivata a rilegarsi in un’antologia con inediti, entro le sale di Palazzo Bertazzoli – il vernissage è avvenuto sabato, a Bagnolo Mella. La mostra, a cura di Serena Filippini, con CoArtCo - Galleria d’Arte Contemporanea APS, pressurizza il lungo cammino bonettiano attraverso concetti e simboli che ancora fanno da collante sulle diverse istanze del reale, contigue e contrapposte. Se alla 54esima Biennale di Venezia, quella d’Italia-Cina/Cina-Italia, furono le indimenticabili (lucide giganti) sfere parmenidee (a pacificare il tondo dell’essere), il «prima» e il «poi» della creatività di B.B. merita un rispolvero esatto: l’espressività esclusiva, tutta sua, ha convertito la filosofia pittorica (e scultorea) nel linguaggio-traducente a cui oggi attingiamo – per figurarci la complessità, le integerrime dicotomie. Vuoti di una precisa coscienza indirizzante, abbisogniamo tuttavia di «quelle» linee vettoriali – accatastate, adagiate, accostate – nel momento rappresentativo del «me», nelle fotografie di logos e dintorni, dei paraggi vitali. Antecedenti ai «Frammenti», che con la retta s’imbastiscono a partire dagli anni Ottanta, e relative speculazioni illuminate, stanno le opere ragazze (‘60), le sperimentazioni (‘70): appese da vedere, come prototipi neonati o paesaggi distali. Dopo che i segmenti non bastano alla calibratura dei contrafforti tra i contrari universali (caos e ordine, razionale e irrazionale, prevedibile e imprevedibile), allora le «Meta Strutture»: cantieri, container di forme con spigolo errante incidono tele che paiono pellicole; codificano messaggi che, in attesa d’essere letti, emanano rumor di serratura blindata, e muovono nell’immobilità. Così le «Variazioni», in specie quelle «sul numero 7» e la relativa cifratura di bastoncini prossimali quasi alieni, rupestramente cellulari, a occupare (disordinare?) i paraggi di uno spazio potenzialmente infinito. In cui sul finale s’insinuano topi, emblemi della sconvenienza e della pazzia: rosicchiano incauti le tavole magistrali di Piet Mondrian e K. S. Malevic. Sono melodrammaticamente attratti dal «senso del dramma dell’artista – scrive Filippini – come essere che si trova eternamente sospeso tra l’illusione di un’esistenza sociale e una dimensione irreale, entrambe inadatte allo stesso modo, proprio come, in fin dei conti, lo siamo noi». «Aspetti della metarazionalità» è visitabile sino al 26 marzo, il sabato e la domenica (dalle 15 alle 18); in altri orari, su appuntamento prenotando al numero di telefono 3474627366.•. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Suggerimenti