Se fosse un calciatore, sarebbe un dieci. Invece il suo talento è giocare con le parole, mandarle a segno, farle risuonare. Dote affinata nel tempo, arte declinata su giornali e riviste, davanti alle telecamere e sui palcoscenici, da decatleta della comunicazione: giornalista, scrittore, autore. Mica da tutti, passare dalla direzione del Guerin Sportivo a quella - scientifica - della sezione sport dell’Enciclopedia Treccani. Marino Bartoletti però è riuscito anche in altre imprese: per esempio, sdoganare una preparazione da quiz televisivo con l’appeal di chi attraverso quel piccolo schermo sa pure intrattenere.
Come faceva, per esempio, in «Quelli che il calcio», affiancato da chi ne condivideva la lunghezza d’onda come Idris Sanneh: altro secchione col gusto della battuta e dell’avventura, altra punta di diamante di una squadra che sapeva come fare gol dando spettacolo. «Mio fratello Idris, sempre nel cuore: fratello è la parola migliore, quella giusta come ha detto sua figlia Francesca Hadija al funerale. Perché Idris - ricorda il suo amico Marino - chiamava tutti così. Io per lui ero muzungo, il grande fratello bianco: appellativo che credo riservasse a me. Mi è spiaciuto molto che nel giorno dell’estremo saluto della nostra trasmissione ci fossi soltanto io. Fiero di esserci, sarei venuto anche a piedi. Ma "Quelli che il calcio" gli deve così tanto! Il successo che ha avuto quel programma è inimmaginabile senza di lui».
In un’epoca di divisioni feroci, Idris sceglieva la strada dell’inclusione. Una scelta controcorrente?
La definirei dirimente. Persino in un mondo come quello del calcio dove tutto è divisivo e persone normalmente calme diventano selvagge, Idris riusciva a unire con la cultura e l’intelligenza, l’affabilità e l’empatia. Il mio post in suo onore ha fatto un milione di visualizzazioni, senza un commento negativo. Il che è contro ogni statistica, perché 10 scemi li trovi sempre. Qualcuno lo ha accusato di essere juventino, poi un no vax e stop.
Nella sua carriera ha lanciato tanti giornalisti. Per esempio, Monica Gasparini.
Di recente è sbucato dal fondo di un cassetto il foglio dei ragazzi che esaminai un giorno del 1991 per formare la redazione sportiva Mediaset: Monica era quella con la valutazione maggiore. Aveva 24 anni ed era quasi impossibile non notarla. Sono orgoglioso di lei come allieva, professionista e amica. Talento e serietà le hanno consentito di scavalcare le montagne della vita. Ho assunto centinaia di giornalisti, tanti mi stanno a cuore; lei è sul podio.
Che ricordo conserva del Brescia di Corioni, Baggio e Mazzone?
Ero molto amico di Corioni, come anche di Baggio. L’addetto stampa Piovani mi regalò la maglia. Io sono un uomo di provincia, se vuoi farmi complimento dammi del provinciale perché per me significa la voglia di migliorare sempre; non potevo non avere simpatia per il Brescia. Sono stato amico di De Paoli, meraviglioso, e poi Spillo e Becca, persone care... Tanti motivi per amare Brescia.
Se le dico Cellino?
Mi spiace, la città potrebbe esprimere qualcosa di più importante. Già il fatto che il presidente sia arrivato da fuori non mi convince. Cellino lo conosco bene, sì. Avrà i suoi meriti, le sue intuizioni, ma Brescia meriterebbe un percorso più autoctono, una guida bresciana. Vorrei che i miei nipoti lo ritrovassero fra i protagonisti della Serie A, sul loro album di figurine.
Nel 1990, anno del suo ritorno in tv dopo i record con il Guerin Sportivo, l’estate delle notti magiche con l’ex Brescia Azeglio Vicini commissario tecnico. Quanta la distanza fra la sua figura e quella di Roberto Mancini, pronto a mollare da un giorno all’altro la Nazionale per accasarsi in Arabia a peso d’oro?
Mancini ha sbagliato e con lui chi l’ha consigliato. Vicini come tecnico è nato con l’Italia, il suo percorso è tinto d’azzurro. Mancini viene da altre culture, altre esperienze, ha allenato all’estero. Per amore aveva scelto la Nazionale, dimezzandosi lo stipendio; adesso ha sbagliato clamorosamente i modi, ma chi lo maledice perché se n’è andato diceva Mancini out poco tempo fa.
Non si parla mai abbastanza della maleducazione del pubblico, che si tratti di tifosi o di spettatori: vale per esempio per Morgan, sbottato dopo essere stato importunato durante uno show.
Morgan, che per me è Marco, è un artista. L'ho apprezzato anche nella sua versione di «Luci a San Siro» durante la recente serata-tributo per Vecchioni. Ho avuto modo di conoscerne anche la timidezza. Purtroppo si presta terribilmente bene alle critiche. Citando Mazzone, peccato mandi troppo spesso in giro suo fratello. Quanto al pubblico però sì, ormai tutti si sentono padroni degli altri. Come disse Guccini, quando qualcuno gli chiese una canzone che non aveva fatto, «un concerto non è un jukebox». E c'è modo e modo di chiedere. Troppa maleducazione in giro.
Il Festival di Sanremo per lei non ha segreti: il suo Almanacco ormai è storia.
Lo aggiornerò per il 75°, dopo la pubblicazione per il 70°. Il Festival è materia mia.
Nel prossimo ci sarà Blanco, dopo Leali, Renga......
E Maffoni, oltre naturalmente ai Timoria. Io voglio restare aggiornato, alzare il sopracciglio non è mai esercizio fertile: ne ho visti tanti alzarsi per Vasco, Zucchero, prima ancora Celentano e Paoli, Gaber e Bindi. Non farò lo sbaglio dei boomer. Oggi apprezzo i Måneskin e Blanco: mi aveva deluso sbroccando all'ultimo Festival, ma si è scusato in maniera così carina. E, come dice sempre Guccini, «a vent'anni si è stupidi davvero». A chi non è capitato di sbagliare?
La sua canzone di Sanremo?
«Io che non vivo (senza te)», 1965, Pino Donaggio. Piaciuta fin dal primo momento, mi ha accompagnato in tanti momenti di vita.
La partita?
Italia-Brasile dell'82. E Forlì-Livorno del '64: il Forlì inseguiva la Serie B e vinse 1-0. Sugli spalti non si poteva toccare terra, lo stadio era stracolmo, la gente spalò la neve perché la gara si disputasse. Lo sport è quelle emozioni lì. Chissà che un giorno io non riesca a raccontarle, mi dicevo. Qualcosa sono riuscito a fare.
Qualcosa che non ha mai raccontato?
Estate 2017, sono a Dimaro per seguire il Napoli: ritiro sfarzoso, 20 mila tifosi. Mi concedo un giro in bici in salita e scorgo un pulmino verdeazzurro su un piccolo campo: è la Feralpisalò. Mi fermo a guardare l'allenamento, nasce una simpatia. Ho un carteggio con l'addetto stampa Oxilia, mi ha invitato tante volte: prometto che quest'anno in B vengo a vederla dal vivo. È la mia squadra acquisita del cuore.