«Il tarlo di poi», nostalgia d’incanto

Possa la poesia posare un assillo addosso all'addome: l'amuleto d'Amon. Perché la protezione del dubbio vince molto, anche le morti. «Il tarlo di poi» (Temperino Rosso Edizioni) sente «ombre, luci, chiarori che dicono Altro e additano l'Oltre», prefa Piera Maculotti. È Gaetano Bonera - bresciano, ex insegnante, cultore d'arte - a rovesciarle sui fogli come càpita con vino brusco e tovagliame. Restano macchie stinte da interpretarsi, mentre già va il bucato dei sudari («vecchi canuti/ arrotolati/ nei bianchi ospedali»), dei testamenti («mi piacerebbe finire/ fra litanie di grilli»). Profeta del lastrico, voce sommersa da «allarmi, semafori/ dischi orari, etichette scadute», Bonera invoca tra il noi e il voi esortazioni agresti, esclamate con lo sforzo del sussurro osceno dentro la canonica: «Ridateci un cortile/ un prato»; «Riascoltate il tonfo del maglio/ su strade sterrate». Le poesie, queste, che portano titoli timbro, laccati sulla fine dell'ultimo verso, possono venir lette a incrocio, a collage, a strappo. Certe strofe haikai («S'annuvola l'incenso/ di un prato falciato»; «Busso/ oltre le smagliature di nubi/ e ramaglia di ghiande») fanno alzare lo sguardo e lo incantano in un glitch. Forte poi torna il simbolismo - del mandorlo e delle vie bianche, del biancospino e delle angurie fradice - con parole pensate dal «fanciullo» dentro sé. Ogni cosa chiama nostalgia («Se resisto/ è per la voce/ di un vicolo vivo/ o di un asilo»), senza nominare il passato ma ungendo le nuche conosciute nel contrassegno della pace («Noi,/ che lasciavamo vivere i nemici/ per non sentirci soli»), ancora sperando («A voi dico/ radunatevi e destate/ nelle cattedrali/ canti e dogmi sommersi»). Dietro la «processione d'acari» pronta a sfilare, s'erge l'immagine di parcheggi in cui avvengono, ignorate, cicliche epifanie imbrunite: personaggi pànici da presepe urbano, api-cometa, terrosa polvere pentecostale che sfoca la vista, preservando il miraggio. Che sia un sogno? Come quello della corriera e del fico. Come «il lento sobbalzo disabitato» dei treni merci framezzo il fiore della sambuca, e le ortaglie franose. «Un merlo fischia/ un treno risponde» appunto. La natura estingue. Il poeta fissa la lotta estati dopo estati - teste rasate, cicale sgolate, lucertole mozze.•. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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