La strada di Kerouac porta sempre «altrove»

«On the Road», un manifesto
«On the Road», un manifesto
«On the Road», un manifesto
«On the Road», un manifesto

«Una macchina veloce, l’orizzonte lontano e una donna da amare alla fine della strada». Una folgorazione. «On The Road» è romanzo icona della Beat Generation. Jack Kerouac lo iniziò nel novembre del 1948 e pubblicò nel settembre del 1957 con una prosa che rivoluzionava la forma-romanzo. Un linguaggio assolutamente innovativo grazie all’ininterrotto flusso di coscienza già in realtà sperimentato in letteratura con quell’Ulisse pubblicato da Joyce nel 1920. Flusso che in Kerouac si materializza nell’estetica di un rotolo per telescrivente di 36 metri che gli permette la scrittura su carta senza soluzione di continuità. Procedere senza spezzare la narrazione ha cioè contribuito al dispiegarsi fluido della storia; cosa tanto più importante, questa, per il fatto che le sensazioni dello scrittore e del lettore superano per importanza i fatti, assurgendo a reali protagoniste della narrazione. Trama, come suol dirsi, che è presto detta: 5 episodi che raccontano il viaggio come fine a se stesso: «Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati», «Dove andiamo?», «Non lo so, ma dobbiamo andare». Una narrazione, quella di Kerouac, che si appoggia assai sulle assonanze sonore che punteggiano una prosa che nelle traduzioni – italiana compresa – svaniscono, e non poteva essere altrimenti, come ammoniva Foscolo («Tradurre significa tradire»), che non mancò di insultare il Monti quando ebbe modo d’incontrarlo in un salotto milanese, apostrofandolo come «Gran traduttore dei traduttori d’Omero», riferendosi alla conoscenza approssimativa del greco da parte del traduttore dell’Iliade (non era una storia di letteratura, ma di corna: quelle che Foscolo metteva al Monti seducendo la di lui moglie).

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