Maria la divina e il bisogno di una bellezza «umana»

di Laura Boella
Filosofa e accademica, cuneese, Laura Boella è anche traduttrice
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Filosofa e accademica, cuneese, Laura Boella è anche traduttrice
Filosofa e accademica, cuneese, Laura Boella è anche traduttrice

Durante il lockdown per la pandemia da Coronavirus ho scoperto che nel gennaio del 1956, alla Scala, Ingeborg Bachmann assistette alle prove generali de «La traviata», con Maria Callas che cantava Violetta. Tra loro si insinuò il desiderio di un'altra voce, la voce umana della vita, dell'amore, di un'arte che non mortifichi la bellezza riducendola a intrattenimento, di una libertà che non costringa una donna a mentire. Attraverso il loro incontro anch'io ho sentito risuonare una voce che conoscevo, familiare e insieme sorprendente, che non mi chiedeva di diventare un'altra, ma di riconoscere che si paga un prezzo, quello del distacco e dell'impersonalità, quando la si tiene nell'ombra. Alcuni anni dopo, Ingeborg Bachmann scrisse infatti due frammenti mai pubblicati in cui raccontava quel pomeriggio come una specie di folgorazione: l'opera le interessava fino a un certo punto, ma la voce e la presenza scenica di Maria Callas la colpirono in modo realmente straordinario, tanto che scrisse «Improvvisamente mi accorsi che sulla scena c'era una creatura».Bachmann racconta di una cantante la cui voce è molto più di un miracoloso organo, ma è anche sguardo, sorriso, lacrime, comunicazione di fragilità umana e al tempo stesso bellezza e gioia. Il sentimento, pregno di un romanticismo così fragile, apre lo scenario a una varietà di spunti pressoché infinita, dall'emancipazione femminile fino al divismo che in parte rovinò Maria Callas, maschera di una persona mai conosciuta fino in fondo. Ho trovato forti analogie tra queste due donne, entrambe morte giovani, in maniera tragica. Donne affascinanti e perseguitate in vita e morte da pettegolezzi artistici. L'analogia ha generato in me il desiderio di approfondire due vite divorate dal pettegolezzo; mi sono resa conto che ci sono margini di oscurità dovuti alla loro esposizione, a questa forma di dedizione all'arte dettata dalla volontà di donarsi. Il discorso passa dunque facilmente a una contemporaneità fatta di luoghi comuni, vittoria e sconfitta, angeli e demoni. Imperversa una concezione banale della vita, e, nonostante le durissime prove della pandemia e della guerra, nessuno ha voglia di pensare alla fragilità e ai limiti dei momenti critici dell'umano. Viviamo di dualismi senza senso, i social network se ne nutrono: se pensiamo alle elucubrazioni sul corpo di Maria Callas, oggi non è cambiato nulla. Anche le modelle che sembrano più terrene fanno i conti con un immaginario maschile. E non bisogna essere un'attrice o una cantante per rischiare di essere esposta. Come diceva Ingeborg Bachmann su Maria Callas, bisogna soltanto «rivendicare una bellezza umana, e prendere la realtà delle persone nella loro infinita varietà».

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