Ron in direzione Brescia «Una città per cantare le canzoni che amo»

di Gian Paolo Laffranchi
Ron, nome d’arte di Rosalino Cellamare: 52 anni di carriera, ha vinto il Festival di Sanremo nel 1996 con «Vorrei incontrarti fra cent’anni»
Ron, nome d’arte di Rosalino Cellamare: 52 anni di carriera, ha vinto il Festival di Sanremo nel 1996 con «Vorrei incontrarti fra cent’anni»
Ron, nome d’arte di Rosalino Cellamare: 52 anni di carriera, ha vinto il Festival di Sanremo nel 1996 con «Vorrei incontrarti fra cent’anni»
Ron, nome d’arte di Rosalino Cellamare: 52 anni di carriera, ha vinto il Festival di Sanremo nel 1996 con «Vorrei incontrarti fra cent’anni»

L’irresistibile leggerezza dell’essere artista: poter fare quello che ti piace, sapendo che piace anche a chi ti segue. Per Ron una certezza - sudata, meritata, consolidata - da più di mezzo secolo. L’ex enfant prodige diventato cantautore di riferimento per più di una generazione è oggi un musicista realizzato, libero di portare sul palco ciò che gli va. Quello che è. La freschezza dell’ultimo album di inediti che dà il titolo alla tournée teatrale in partenza l’8 marzo a Senigallia, «Sono un figlio Live Tour», caratterizzerà anche la scaletta del concerto bresciano in programma il 14 aprile al Gran Teatro Morato (inizio alle 21.15, produzione Trident Music). Uno show in cui il vincitore del Festival di Sanremo del 1996 (in coppia con Tosca, con «Vorrei incontrarti fra cent’anni») spazierà naturalmente anche fra i numerosi successi di una carriera infinita. Quant’è complicato scegliere i pezzi, potendo pescare da una tale discografia? Non è facile ma al tempo stesso è stimolante, avendo tanta carne al fuoco: 52 anni di musica... Qualche giorno mi hanno detto che ho pubblicato 29 album: «29 album... ma sei pazzo?», ho risposto. E invece. Invece è così. Il bello è poter scegliere, come sempre. Il criterio? Mai scelte di comodo: canto quello che mi piace. La musica che amo. Ho la fortuna di aver sempre avuto accanto persone che mi hanno assecondato. Al contrario di quanto accade troppo spesso soprattutto negli ultimi. Sì, con artisti che si vedono consigliare featuring col rapper di turno perché è di moda... Ma se uno non ha dentro certe cose non bisogna fargliele fare. Un artista non va snaturato. Non è mai una scelta felice: come mettere la marmellata su una carbonara, gli ingredienti possono essere ottimi ma non c’entra nulla. Il punto è proprio questo: la creatività dev’essere valorizzata, non frustrata. Penso ai musicisti che si sentono dire «Perché non fai una cosa alla maniera di...». Ecco: non funziona, non va bene. Come sarà strutturato il suo concerto? Porterò con me il gruppo che mi segue da anni, musicisti eccezionali ai quali si aggiungerà Stefania Tasca, una cantante bravissima. Ci sarà un assaggio del mio disco «Way out», in cui omaggiavo cantautori britannici come Damien Rice e Michael Kiwanuka, nomi scelti pensando anche alle nuove generazioni. E presenterò, spiegandole, le canzoni del mio ultimo album: è il momento di farne conoscere anche le premesse, come sono nate e si sono sviluppate. Dei suoi classici invece si sa già tutto. Quale canzone ha più voglia di cantare, ora come ora? Fra le tante, ce n’è una che ha rappresentato un vero punto di svolta: «Una città per cantare». Disco epocale del 1980, cover di «The road» che era già passata da Danny O’ Keef a Jackson Browne. In Italia Jackson Browne era ancora pressoché sconosciuto. Io mi innamorai di quel pezzo, c’ero dentro, volevo raccontare quel viaggio che noi musicisti conosciamo bene e ne parlai con Lucio Dalla. Lucio fu colpito dall’idea e scrisse un testo bellissimo ma pieno di parole che uscivano dalla metrica. Io sono un tipo preciso, non volevo infrangere quella regola della scrivere, ma Lucio mi disse «Chissenefrega, va bene così». Aveva ragione lui. Ha gradito anche Jackson Browne. Sì, l’ho ospitato una settimana a casa mia e l’abbiamo incisa in forma di duetto in «70/00», mio disco del 2000, in occasione dei miei trent’anni di carriera. Abbiamo anche girato un video alle 7 del mattino, a Vigevano, intrecciando le nostre chitarre... Meraviglioso. Separati dalla nascita. Ci troviamo bene, sì. Ha collaborato in passato con Omar Pedrini: se le dico Brescia, che quest’anno è Capitale della Cultura, di primo acchito cosa pensa? Omar è un amico oltre che un musicista che stimo, gli auguro il meglio. Nel Bresciano ricordo uno dei miei concerti più emozionanti: mi esibivo a Vobarno e fu una serata speciale. Martedì inizia il Festival di Sanremo, che lei ha vinto in passato e che l’anno scorso ha visto trionfare il bresciano Blanco insieme a Mahmood: il segno della rivoluzione avvenuta nel pop italiano, come il cast sempre più aperto alle giovani star? Direi proprio di sì. Vero quello che dice su Blanco, e sono contento che abbia vinto lui in coppia con Mahmood l’anno scorso: portavano sul palco una bella canzone. Ecco, io vorrei che all’Ariston contassero soprattutto le canzoni e che ce ne fossero tante di belle. Ci saranno Giorgia, Mengoni, ma in generale non credo che il Festival sarà troppo diverso dall’ultimo, dal punto di vista delle proposte in gara. Io spero di ascoltare buona musica.•.

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