Nella lunga faglia della crisi forse risiede, perduto, il seme di una rinascita. Quella straordinaria capacità di vedere nell’oscurità, fino a ritrovare una nuova luce capace di riscrivere nuove parole, e con esse un nuovo mondo. È una rivoluzione intima quella al centro dello spettacolo «Franciscus. Il folle che parlava agli uccelli», di e con Simone Cristicchi con produzione Centro Teatrale Bresciano e Accademia Perduta Romagna Teatri, in città per la Stagione del Ctb per un’attesissima prima nazionale al Teatro Sociale dal 7 al 13 novembre tutti i giorni alle 20.30 e la domenica alle 15.30 (i biglietti sono esauriti: ogni sera a partire da mezz’ora prima dello spettacolo quelli dei rinunciatari verranno rimessi in vendita alla biglietteria).
Sulla scena, Cristicchi riflette sull’attualità del messaggio di Franciscus, tra pensieri e canzoni inedite, in un racconto sorprendente del «Santo di tutti», rivoluzionario e innamorato della vita, che sapeva vedere la bellezza in ogni cosa.
Come è arrivato a Francesco D’Assisi nel suo percorso sul palcoscenico?
In questi anni ho navigato nella geografia umana, toccando sempre più tematiche spirituali. La figura di Francesco è sempre stata un sottofondo nella mia ricerca, ho toccato con mano il suo pensiero durante i ritiri nell’eremo francescano o facendo conoscenza delle suore di Lovere. Ho così deciso di riflettere sul suo messaggio in relazione al nostro mondo, in uno spettacolo non biografico, un vero e proprio musical che parla di noi.
Parlando della sua conversione dice «quando sono uscito fuori dal mondo». Il suo primo insegnamento è suggerire che dobbiamo far esplodere dentro di noi una rivoluzione. E poi c’è il tema dell’incontro, del dialogo, della necessità di ridare valore alla parola, alla sua verità.
Sì, perché oggi viviamo immersi nelle menzogne. Stiamo vivendo un’epidemia di solitudine, e allora abbiamo la necessità di tornare alla relazione umana. Ci vuole molta forza interiore per dialogare con l’altro, per avere attenzione e cura verso chi spesso è diverso, emarginato.
Uno sguardo, questo, che forse ci può dare solo l’arte, in ogni sua forma?
È la nostra scialuppa di salvataggio. È una missione che porto avanti anzitutto per me stesso, autoanalisi in dialogo col pubblico. Credo che gli artisti oggi debbano ritrovare questo ruolo, siamo pieni di inutili intrattenitori, non siamo più le spine nel fianco del potere come lo erano Gaber o De André. Dobbiamo tornare a un’arte deflagrante, capace di rompere gli schemi. Ne abbiamo bisogno per il nostro futuro.