Tamiro, ode a Brescia tra intingoli e primizie

di Alessandra Tonizzo

Ha da tornare, la bocca, dentro quel primo piatto ove spazia l'intingolo, da strato a strato, e la forchetta s'arrocca su calda salsa lattea. Guanta la gola la «Bresciamella bis» (Temperino Rosso Edizioni): serve un bavaglino per leggere il sequel di Flavio Tamiro, genovese, classe 1960, ex prof traslocato nel Leccese ma con Brescia nel cuor. Ghiottissimo fu un carnevale a Bagolino, che gli costò, nel 2018, quel primo viaggio libresco alla Brixia para-gastronomica. Anche se di sé racconta alterazioni sostanziali – «La mia Weltanschauung sta mutando e, non risultando più muto, scrivo e verseggio riconsiderando il valore del tempo corrente» –, la ricetta del pamphlet cambia poco. «Tra pietraie, macereti,/ cogli stinchi stanchi e cheti», lo stornellante e la sua cetra polentifera perseverano nel vagabondaggio longobardo. Calli e scarponi, zuppe e intingoli, guarda al francobollo mondano usando occhi gentilmente barbari, facendo ricordare costumanze orali – di deschi come lingue draconiche, al ritmo della pernice e del vin speziato – che solo archeostorie brute poterono. Lui, che riesce a mettere insieme il suo personale Nietzsche/ camicie («Brian Skiff/ berlìf» avrebbe solleticato Gozzano, sì), predilige scenari verdeggianti, quasi celtici, alle campane cittadine. «In cima sono al monte/ col sole su la fronte,/ son tredici le piante stagliate sul quadrante»; «Il vasto panorama è specchio che richiama/ la splendida natura che vive duratura». Su strofe affettuosamente baciate macina chilometri importanti, però mai gratis: «L'Adamello mi lusinga/ con l'offerta di meringa». Esistono primule, pesci fantasma, pazziano persino Streghe gasatissime («È Pisogne tutta santa!/ Niente Coca, solo Fanta,/ ovviamente fantasia/ d'una fola mezza mia»). Però Tamiro, manco dovesse consegnare il dorato Tapiro, si rallegra di più nel trovare busillis; anche ecologisti, come sul monte Guglielmo: «Al bordo del Morina la trota fu carina/ a darmi quel flacone gettato nel torrente/ da qualche delinquente che crucci non si pone»; pure storiografici, vedasi Forcel Rosso: «Gli venisse la diarrea/ a notare la trincea, è che esso si rammenta/ d'una guerra lutulenta». Lo scrittore non risparmia quel Gargantua che gli muove le giunture, su e giù, avanti e indietro la nostra terra. Al Bruffione lo scompenso stomacale è tale che sfiora il misticismo, l'agiografia (della dispensa zen): «Riconobbi per la fama/ Il Dalai che sai fa Lama/ che scambiandomi per Brahma/ m'ossequiò con tre "salama"./ Io capii ch'avesse fame/ ed estrassi del salame dal tascone dello zaino,/ confessando fosse daino». Dai, no: il poeta non sempre scherza, sa esser serio e commovente, quando voltatosi a salutare il serpente stradale riconosce d'essere un granellino di senape nel mezzo del cosmo nostrano-norcino. Sul Cidnneo disappanna i bulbi, avvisa con congedo lo stupore del lettore: «I Ronchi quasi palpi/ puntando le Prealpi».•.

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