storie di artigiani/1

Antonella Bergamini e l'arte della ceramica: «Creta, aria, fuoco. Amo la luce e i colori»

di Chiara Comensoli
Dall'incontro con l'arte alla professione: «Non sono né famosa né ricca, ma sono serena. Spero che qualcuno, un giorno, possa ricordarsi di un'insegnante appassionata e gentile. Io ho fatto del mio meglio»
Antonella Bergamini nel suo piccolo, grande mondo artigianale a Gussago
Antonella Bergamini nel suo piccolo, grande mondo artigianale a Gussago
Antonella Bergamini al lavoro

«Sono bresciana, ho il lavoro dentro». Antonella Bergamini lo dice quasi come fosse una scusa, il pretesto che la spinge a plasmare i materiali che la terra le offre per dotarli di una foggia, un colore, una personalità. Essi, trasfigurati, rinascono sotto forma di manufatti che animano il suo mondo. Un mondo fatto di ceramica. E di allievi ai quali tramanda le proprie conoscenze.

Come si è appassionata alla ceramica?
La domanda giusta sarebbe «come ti sei appassionata ai colori», perché questo arriva prima. Ero una bambina solitaria che non amava correre né saltare e la mia mamma, perciò, comprava gessetti, timbri, colori. Un giorno una sua amica venne a trovarci e rimasi colpita da una piccola spilla che indossava: l’aveva dipinta lei e mi disse che avrebbe potuto insegnarmelo. Così imparai da lei a impastare i colori, ma erano sempre cupi. Dissi a mia madre che, una volta trovato un lavoro, il primo stipendio l’avrei impegnato per trovare un’insegnante che mi iniziasse all’arte della ceramica. Quando la trovai, una ricca signora della Svizzera francese, mi fece fare chilometri di foglie che, alla lunga, mi annoiavano. Ma mi fece un favore, perché poi divenni più brava di lei.

Cosa le piace di quest’arte?
Mi piace tutto ciò che è legato al colore e alla luce, perché mi crea un’emozione forte. Ricordo come davanti al Narciso di Caravaggio piansi. La ceramica, in particolare, rappresenta l’unione degli elementi naturali: la creta - la terra dell’arte - l’aria - che, essiccandola, ne fissa le sembianze - il fuoco - che, cuocendola, la rende impenetrabile. L’arte parla di te: i colori sono testimoni della tua tristezza e della tua felicità.

Cos’è l’insegnamento?
A mia mamma avevo giurato che mai avrei insegnato. Però mi sono accorta che, dopo il mio matrimonio, l’unica cosa che sapevo fare era dipingere. Perciò ho fatto la pioniera: alla fine degli anni ’80 mi sono comprata un forno e ho iniziato a fare domanda ai comuni per attivare dei corsi. Qualcuno ci ha creduto: al primo colpo mi ritrovai con 15 allievi in classe. Al contempo ho dato vita al mio laboratorio. Partecipavo alle mostre di categoria e affittavo alcune stanze del comune per esporre i lavori.

Cosa spera di lasciare agli allievi?
Non ho mai provato simpatia per quegli insegnanti che tengono dei segreti per sé, che si danno con riserva. Se sei geloso del tuo lavoro non puoi insegnare. Io spero di lasciare ai miei allievi lo stesso entusiasmo che anima me. E, soprattutto, un desiderio continuo di sperimentazione. Insegnando scopri che gli altri hanno pareri diversi dai tuoi e che lo scambio costante di idee e saperi è un motore molto forte.

Qual è il passaggio, nella realizzazione degli oggetti, che dà maggior soddisfazione?
A darmi soddisfazione non è tanto la realizzazione in sé del lavoro, ma la sua pianificazione. Progettare l’idea è la parte più interessante: la sfida è riuscire ad ottenere ciò che la fantasia suggerisce, superando gli ostacoli della tecnica.

Qual è il lavoro più bello che ha fatto?
Non sono mai completamente soddisfatta di ciò che produco ma, durante il lockdown, mi sono messa alla prova con una cosa nuova: ho creato animali, come tigri, leopardi, cavalli che mi hanno dato molta soddisfazione proprio per la loro novità. Non mi sono annoiata un attimo.

E il più brutto?
Certamente un servizio di tazzine, il mio primo lavoro, che mia mamma conserva gelosamente. Se oggi una delle mie allieve me lo presentasse le direi: «Guarda, mi spiace ma non sei portata». È davvero bruttissimo!

Cosa è l’arte?
Banalizzando direi che è la vita. Quando vado nel mio laboratorio, vado anche in un’altra dimensione. Durante il lockdown ho potuto disporre di un tempo senza fine, un tempo adatto ad inseguire le idee che arrivano veloci e che devi essere svelta ad afferrare perché sennò si perdono. Mi svegliavo alle 8 e andavo a dormire alle 2 del mattino: potevo finalmente permettermi questo folle inseguimento. Perché, il giorno dopo, non è detto che possegga la carica emotiva del giorno prima.

Qual è la cosa più difficile del lavoro? E la più facile?
La più difficile è avere a che fare con le persone. Devi capire chi hai davanti perché una sola parola può ferire, demoralizzare, offendere. Ho visto più risultati in chi si presentava dicendo di non saper fare niente e, quindi, la parola può rovinare un percorso. La cosa più facile è trasmettere l'entusiasmo: se lo hai si vede. Ed è contagioso.

Com'è oggi il mercato della ceramica?
È un mercato in difficoltà, soprattutto il mio, quello di terzo fuoco. Ma una nicchia clientelare c'è. Non si lavora come un tempo, ma questo è servito a dare una scossa alla decorazione classica: ora si ricerca un tratto più stilizzato, pulito, meno pittorico e ridondante.

Cosa consiglierebbe a chi volesse affacciarsi al mondo dell'artigianato?
Oggi direi che è un aspirante suicida, perché non c'è alcun aiuto statale per la categoria: le tasse sono troppe, gli affitti altissimi. Ed è per questo motivo che ho dovuto dedicarmi soltanto all'insegnamento. Ora, poi, si bada solo alla firma o all'usa e getta, quindi vendere è difficile. La gente ha dimenticato le cose belle, il valore del fatto a mano. Ma chi ha un sogno deve crederci. Non sono né famosa né ricca, ma sono serena. Spero che qualcuno, un giorno, possa ricordarsi di un'insegnante appassionata e gentile. Io ho fatto del mio meglio.

 

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