TRASFORMAZIONI

Giorgia e l'effetto imposto dal ruolo

di Federico Guiglia

Anche per i presidenti del Consiglio c’è sempre una «prima volta». Ieri il debutto di Giorgia Meloni, con famiglia al seguito (il compagno Andrea e la figlia Ginevra) da Papa Francesco in Vaticano. Ma il giorno precedente la premier s’era incontrata a Palazzo Chigi con Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea e a sua volta prima personalità che la nostra allora neo-presidente del Consiglio dei ministri aveva scelto di vedere ufficialmente, volando a Bruxelles poco dopo l’insediamento del governo. Non meno significativi, ricordiamo, l’annuncio del viaggio a Kiev da Volodymyr Zelensky e gli interventi ai vertici di portata globale, dal G20 dello scorso novembre in Indonesia al G7 del prossimo maggio in Giappone. Così come i colloqui internazionali a cui ogni primo ministro è chiamato dal suo ruolo di rappresentanza. In meno di tre mesi quell'«Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana», ha lasciato il passo e il posto a una consapevole e tutt'altro che sprovveduta presidente del Consiglio. Che ha capito subito una lezione non ancora e non sempre digerita dai suoi stessi alleati Silvio Berlusconi e soprattutto Matteo Salvini: il dovere della trasformazione istituzionale per chi varca la soglia di Palazzo Chigi. Giorgia Meloni non è più la leader della destra italiana, né una politica premiata dai sondaggi. È, invece, la rappresentante dell'Italia e perciò il Pnrr oppure perfino il pur disdegnato Mes valgono una o dieci conversazioni con von der Leyen. Così come conta il rapporto storico e speciale, suggellato nella Costituzione della Repubblica, con la Santa Sede. Gli elettori legittimano, ma sono i comportamenti istituzionali che accreditano: ecco perché è così importante evitare tentazioni di isolazionismo (per esempio nella politica sull'immigrazione, che dev'essere europea) o declamazioni continue, di nuovo alla Salvini. Anche in politica talvolta il silenzio è d'oro. Come insegnava Mario Draghi, quando non si ha niente da dire, è bene tacere.È un insegnamento che l'esordiente Meloni pare aver appreso in fretta, almeno stando alle sue prime mosse e dichiarazioni. Il governo è chiamato prima a fare e poi a spiegare. O a spiegare quel che ha fatto. L'epoca delle parole che non dicono né fanno, è finita con la guerra in Ucraina, con la crisi energetico-economica, con la pandemia in agguato, coi conti di famiglie e imprese che non tornano alla fine del mese.

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