L’INCUBO DEL 2035

Innovare sì ma senza suicidi industriali

di Francesco Morosini

Il 2018 è l’anno spartiacque per l’industria automobilistica europea: vi si registrò il picco di produzione. Poi il Sars-Cov2 ha fermato l’economia globale. Quando il virus ha allentato la presa e il settore automotive ha ripreso a muoversi diversamente dal resto del mondo: in Unione europea arranca e non è ancora tornato al livello del 2018. Se si comparano gli Stati Uniti, il Giappone e la Corea del Sud con l’Euroarea, questa risulta la Cenerentola del gruppo. L’effetto Covid è comune, la causa è da ricercare altrove. A capirla aiuta la Bce nel periodico bollettino economico, il numero 7 del 2022. Per l’Eurotower il calo della produzione di veicoli a motore e l’aumento dei prezzi (che in termini nominali ha salvato le nostre quote di mercato estero) dipendono da fattori problematici presenti già prima della pandemia. Problemi naturalmente connessi anche «a più rigorosi test sulle emissioni inquinanti attuati nell’Ue, alla nuova normativa dell’Unione sulle emissioni di anidride carbonica, alla transizione verso autovetture più ecologiche». Ovvio che è difficile fuggire alle rivoluzioni tecnologiche, ma si deve sapere che nessuna di queste è un pranzo di gala. Dunque, vanno gestite sensatamente, compreso il fattore tempo richiesto per adeguarsi e innovare. Ciò posto, la data che deve preoccupare è il 2035. È l’anno statuito dall’Europarlamento con logica da economia di comando vetero-novecentesca per l’abbandono dei tradizionali motori a combustione. Così il 2035 rischia di diventare l’anno della deindustrializzazione europea (con un progressivo calo degli investimenti specifici – se non cambiano le cose – che può dirsi già iniziato). Certo, l’Ue si deve occupare di sicurezza ambientale, ma è un obiettivo che va perseguito da parte degli Stati membri evitando di farne un braccio legato dietro la schiena nella competizione con le altre aree geo-economiche. Insomma, la fuga dai combustibili fossili per l’auto fissata al 2035 è troppo stringente e potrebbe soffocare un settore industriale vitale. Lo evidenzia l’Osservatorio sulla componentistica automotive italiana 2022, che pure individua stress ambientali (inflazione, tassi, debolezza domanda estera) che condizionano il comparto. Difatti, considera il tetto del 2035 troppo ambizioso per vari motivi, quali la debolezza dell’infrastruttura di ricarica, cui aggiunge la dipendenza dalla Cina relativamente alla produzione di batterie. Un delicato fattore geopolitico cui porre rimedio nel tempo. Ma il tema decisivo è che le aziende concentrate sulla produzione di componenti per motori tradizionali hanno bisogno di un ombrello temporale maggiore per recuperare investimenti fatti, acquisire know how e per continuare a operare nell’automotive dopo il 2035. La fretta ideologica di escludere la tecnologia ibrida può essere devastante per molte aziende del settore con costi pesanti per l’occupazione. Molti analisti dubitano che i motori endotermici siano solo il passato e leggono come ideologica la scelta dell’Europarlamento. Talvolta Bruxelles pare faticare per moda politica a cogliere il rischio di un’Unione trasformata in museo industriale. Sarebbe inutile fare le sentinelle a un processo produttivo segnato e che si deve sapersi innovare. Ma l’elasticità del fattore temporale conta, per evitare che innovazione significhi suicidio industriale. Infine, ci vorrà l’energia per alimentare la rete di ricarica. Fossile, nucleare, come? Rischio politico dell’auto elettrica è che per gli attuali volumi di produzione e salvo shock d’offerta orientali, sarà costosa e simbolo di divaricazione sociale. L’opposto del mito egalitario della Fort T e seguenti. Necessario? Probabilmente no, ma è la conseguenza per fretta di un mercato auto ideologicizzato.

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