PREZZO DEL GAS

L'economia di guerra e un tetto ballerino

di Francesco Morosini

La dipendenza dell’Unione europea dal gas russo, divenuta esagerata con la Germania a guida Merkel, sebbene oggi appaia pericolosa, aveva una sua razionalità. Sia in termini di transizione ecologica, essendo il gas tra le fonti fossili la meno inquinante, che per l’affidabilità commerciale della Federazione russa, in questo buona erede dell’Urss. C’era tuttavia un problema sempre sottolineato da Washington, ovvero che ciò creava una progressiva e discutibile discrasia tra la difesa dell’Ue (la Nato) e le sue fonti di energia (Mosca). La diffidenza degli Stati Uniti nei confronti del North Stream 2, il gasdotto che avrebbe ancor più legato il cuore industriale del Vecchio Continente al Cremlino, aveva questa «ratio». Infatti, al richiamo atlantico anti-moscovita, Berlino lo ha subito congelato. Comunque, il fin qui condiviso “modello Merkel” esprimeva un’utopia, indipendentemente dai fatti di Kiev, fragile: l’illusione euro/tedesca di un’Europa unico «dominus», come compratore, nel mercato energetico della Russia, la superpotenza (militare) sottosviluppata (esporta sostanzialmente materie prime). Mito caduto con la crescita d’importanza dell’Asia come primo mercato mondiale del gas. Errori di valutazione che ora l’Ue, «in primis» Italia e Germania, paga in vulnerabilità verso Gazprom. In realtà, la tensione sui prezzi dell’energia precede la guerra, essendo legata alla transizione energetica; ovvero alla decisione politica di anteporre la ricerca/sostituzione di nuove fonti, onerose, al possibile risparmio in bolletta. Inoltre, gli Stati europei hanno sottovalutato a loro danno il quadro geopolitico/militare sia della transizione che di un possibile conflitto al loro Est: la stessa timida ricerca italiana di partner alternativi (Algeria, Libia, Angola, e così via) lo dimostra. E ora l’affaire ucraino li lascia sovraesposti. Come affrontare tutto questo? L’idea emergente sarebbe di ricorrere a tetti al costo dell’energia (price cap). Il guaio è che nei mercati i prezzi amministrati funzionano male (nulla a che vedere con lo pseudo price cap della Spagna, che si limita a sottrarre al consumatore ma a scaricare sul contribuente – si chiama “illusione finanziaria” - parte dell’onere delle bollette). Comunque, stando al price cap, le opzioni, se si considera il gas sono due. Una consiste nell’imporre un tetto al metano importato via tubo (l’80% del fabbisogno europeo), soprattutto dalla Russia. L’altra, di farlo pure sul gas trattato alla borsa di Amsterdam. Nel primo caso l’idea, con l’offerta di gas vincolata al gasdotto, è di porre a Mosca un «aut aut»: o vendere al price cap impostole oppure tenersi il gas. Idea magari sensata in termini commerciali, ma debole in logica militare. Cioè quella del Cremlino, difatti pronto, in assenza di alternative e per conseguenti vincoli tecnici, anche a bruciarlo. Pure applicare il price cap ad Amsterdam, un mercato spot (che regola le fluttuazioni di domanda e offerta di gas e quindi oggi con i prezzi al top) centrato sulle navi gasiere, è problematico. Perché il mercato del gas è mondiale e basta nulla a spostare una nave dove conviene. Solo in un mondo passato, nell’Europa coloniale, potrebbe funzionare. Quindi? Semplice: accettare che l’economia di guerra, quella in cui ci troviamo, cambia le regole. Detto altrimenti: le sanzioni chiamano economia di guerra e questa il razionamento. Questo, a parità di fattori politici, il nostro stretto sentiero. Le democrazie europee terranno lo shock? Una scommessa improbabile.

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