IL NODO MIGRANTI

L'illusorio equilibrio tra due chimere

di Francesco Morosini

Il naufragio sulle coste della Calabria riporta sotto i riflettori il mai sopito dibattito sull’immigrazione come fenomeno governabile. Le contrapposte narrazioni delle forze politiche paiono affermarlo. Ma è pura narrazione, perché quantomeno servirebbe che Italia e Ue avessero al minimo la capacità di controllo, cioè di proiezione politico/militare, sulle aree di partenza dei migranti, di cui invece sono prive. Se le zone di provenienza dei fuggitivi sono Stati falliti (o abbandonati come l’Afghanistan), zone di guerra o aree oggetto di competizione geopolitica globale, allora le possibilità di governo «pieno» del fenomeno migratorio sono relative. La retorica di scelte pubbliche restrittive o solidaristiche sono sintomi di queste difficoltà. Due sono le utopie da rigettare perché inattuabili. Una è l’idea di «immigrazione zero». La ragione è che per avvicinarvisi bisognerebbe consegnarsi in toto dietro denaro (si fa, ma con risultati limitati) ai Paesi «basi di partenza». Che pure traggono vantaggio dal disimpegno dell’Occidente da Medioriente e Nord Africa: è successo con il ritiro in Iraq e Libia, dove è saltato il passaggio dal cambio di regime alla costruzione della nazione. Analogo discorso vale per la Turchia, che dei migranti - oltre alle rotte mediterranee - controlla a distanza pure la via balcanica. L’altra chimera è l’irenismo dell’accogliere tutti. Dimentico che ciò crea conflitti per la competizione su «beni sociali» scarsi (casa, scuola, sanità) e conseguenti destabilizzanti «guerre tra i poveri». Manca la consapevolezza che una società del tutto aperta è ad alto conflitto sociale. Durezza o solidarietà sono astrazioni prepolitiche quando «il mondo bussa alle porte di casa», imponendo quali uniche risposte alle continue emergenze azioni contingenti, frammentate e mai ottimali. Pertanto le mai definitivamente risolutive strategie d’intervento sono un minimo di controllo delle frontiere, una diplomazia difficile con gli Stati rivieraschi (ad esempio chi è che controlla la Libia?) e cercare partner (l’Ue) per distribuire l’onere del problema. Insomma, le narrazioni di Destra e Sinistra servono più per posizionarsi idealmente che per governare il fenomeno. L’analista Moisés Naím chiama «fine del potere» la difficoltà di gestire in concreto simili sfide emergenti. A complicare le cose ci sono le preoccupazioni economiche e sulla guerra (tra l’altro, ennesimo fronte di emigrazione) che abbattono le capacità d’integrazione. Il fatto è che l’immigrazione è un vero e proprio «paradosso democratico» difficilmente reggibile politicamente. Perché il «voto coi piedi» dei popoli cortocircuita i principi di legittimità dell’ordine politico democratico. Che sono l’universalizzazione dei «diritti inalienabili dell’uomo» (quindi le frontiere aperte) e la sua antitesi, cioè il controllo dei confini come espressione della sovranità politica e la consequenziale esigenza di freno dei flussi migratori. Sottovalutare questa contrapposizione può portare a crisi di legittimità delle istituzioni democratiche. La contrapposizione valoriale nelle liberal/democrazie nasce da un lato dal riconoscimento dei diritti inalienabili dell’uomo, che porta a «frontiere aperte» e dall’altro dall’essere queste dei regimi sovrani necessitati a decidere del proprio territorio anche contenendo i flussi migratori. Rinunciarvi sarebbe il proprio suicidio. In specie se a muoversi saranno interi popoli. Oggi un punto di frattura politica spesso osservata quotidianamente è la spinta a separare la sfera interna della democrazia (dove si definisce la cittadinanza come universale) e l’esterna, radicalizzando la distinzione tra cittadino e straniero (prima i locali). È questo un «paradosso democratico» mai completamente risolvibile, che ci accompagnerà a lungo.

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