La premier Giorgia Meloni parla già di «Terza Repubblica» e intravede l’ultimo miglio della riforma costituzionale. Vedremo se sarà la volta buona. Oggi è in programma un nuovo vertice di maggioranza per dare un colpo di acceleratore all’intero processo. Il problema di un riammodernamento della seconda parte della Costituzione (la prima è ancora fortemente attuale), esiste da almeno trent’anni. Basta scorrere le statistiche dei governi che si sono succeduti alla guida del Paese per avere l’esatta dimensione della questione: fra il 1993 e il 2023 abbiamo avuto 17 premier diversi, contro i 4 della Germania, i 5 della Spagna e i 6 del Regno Unito. Simili a noi solo la Francia, con 12 cambi della guardia. Ma sulla strada della riforma ci sono almeno due ostacoli. Il primo è come inserire, all’interno della riforma, il tassello dell’autonomia differenziata, disegnando un nuovo equilibrio fra lo Stato centrale e la devoluzione di compiti e responsabilità a livello regionale. Sulla carta, la maggioranza è decisa a portare a termine il progetto «federalista», senza se e senza ma. In realtà, dietro le quinte, non mancano i distinguo. Senza contare, poi, i costi dell’autonomia differenziata e, soprattutto, la definizione dei Lia. Una cifra variabile fra i 70 e i 100 miliardi di euro. Montagna di soldi che non abbiamo a disposizione, considerando l’attuale quadro della finanza pubblica. La partita, insomma, è ancora tutta da giocare e c’è anche chi prospetta una sorta di «scambio» fra il progetto «federalista» e l’avvio del «premierato», ovvero della stagione di un presidente del Consiglio eletto dal popolo e non designato dal Quirinale. E qui entra in gioco il secondo grande ostacolo sulla strada delle riforme: in che modo cambiare la Carta non intaccando l’attuale perimetro dei poteri che sono in capo alla Presidenza della Repubblica. Un’istituzione che, negli ultimi anni, si è andata sempre più caratterizzando come un fattore di riequilibrio fra i poteri dello Stato e come punto di riferimento di partiti sempre più litigiosi. Il punto di caduta potrebbe essere confermare l’elezione diretta del premier dando però al Quirinale il compito di nominare i ministri. Così come l’altro punto fermo della riforma, la norma anti-ribaltoni, con la possibilità per il Parlamento di «sfiduciare» l’inquilino di Palazzo Chigi ma, nello stesso tempo, obbligandolo a eleggerne un altro con i voti della stessa maggioranza. Certo, sono due punti cardini della riforma, forse anche quelli più delicati. Ma non i soli. A questi occorre almeno aggiungere il capitolo della nuova legge elettorale, che dovrà essere maggioritaria e tale da assicurare alla coalizione o partito vincente il 55% dei seggi in Parlamento. Ma l’ostacolo più alto è un altro. Se davvero si vuole puntare ad una riforma della Carta Costituzionale occorre, prima di tutto, disfarsi dalla sindrome dello Status quo, ovvero della volontà di chi regge l’esecutivo di indirizzare le nuove regole per consolidare il potere che ha in quel momento fra le mani. Occorre, insomma, allargare lo sguardo su tutti i temi sul tappeto, a cominciare dal rapporto fra le Regioni e lo Stato Centrale e quello fra i due rami del Parlamento. O, ancora, definire meglio il perimetro delle competenze delle diverse istituzioni, magistratura compresa. Solo così potremo avere la riforma della Costituzione che il Paese attende da almeno trent’anni.