Non siamo tornati alla pesante vicenda degli esodati della riforma Fornero, quando per effetto di una norma scritta in maniera frettolosa, migliaia di lavoratori si trovarono da un giorno all’altra senza stipendio e senza pensione. Beffa ingiusta dopo una vita trascorsa a sgobbare in fabbrica o in un ufficio. Ma le nuove norme che «tagliano» i trattamenti previdenziali maturati da alcune categorie di lavoratori pubblici, dai medici agli ufficiali giudiziari, continuano a creare caos e timori. Sulla carta, la decisione del governo di adeguare tabelle che risalgono al 1958 e che di fatto creano disparità fra i dipendenti pubblici, può essere anche condivisibile, alla luce delle dinamiche demografiche e soprattutto della pesante situazione dei conti dello Stato, che impongono sacrifici per tutti. Ma quello che davvero non si può accettare sono le modalità di un’operazione che, ancora una volta, è slegata da una riforma complessiva del sistema ed è fatta più per fare cassa che per dare una riassetto definitivo all’intero comparto. Già col balletto delle «quote» per lasciare il lavoro, che cambiano di anno in anno, combinando in vari modi età anagrafica e contributi, si sono generate forti incertezze.
Soprattutto per chi è prossimo alla pensione e aveva immaginato anche qualche progetto di vita una volta lasciata l’attività. Ora, con il ricalcolo degli assegni per gli statali, la situazione è ancora più pesante, dal momento che viene modificata in corsa anche la dimensione dell’assegno dell’Inps e non solo la sua durata. Il governo Meloni ha già annunciato che tornerà sulla questione, correggendo la norma e cercando di spalmare il «sacrificio» su una platea più ampia. Insomma, una piccola retromarcia nel segno dell’equità. Al di là dei contenuti dell’annunciato maxi-emendamento, occorrerebbe riflettere sul metodo fino ad ora seguito dagli ultimi governi, indipendentemente dai suoi colori politici, con gli interventi «spot» sulle pensioni e senza un disegno organico e strutturale in grado di garantire l’equilibrio dei conti, i diritti acquisiti dai lavoratori e quel patto intergenerazionale che deve reggere l’intero sistema. Altrimenti il rischio è non solo quello di creare nuove disparità di trattamento ma anche di avere un effetto «boomerang», incoraggiando tanti cittadini che avrebbero magari continuare a svolgere le rispettive attività a lasciare il prima possibile il lavoro e non incappare nella tagliola del governo. È il caso, ad esempio, delle migliaia di medici che stanno pensando di abbandonare gli ospedali per evitare assegni Inps più poveri. Il tema delle pensioni, in conclusione, è troppo delicato per essere affrontato in maniera disordinata e, soprattutto, senza dare certezze a chi ha lavorato una vita intera e che ha tutto il diritto di poter contare su un orizzonte previdenziale sicuro e a prova di manovre economiche.