Quando scorriamo una classifica, come quella della qualità della vita compilata ogni anno dal Sole 24 Ore, la prima tentazione, spesso l’unico interesse, sta nello scorgere il vincitore, i migliori piazzamenti e – magari per autocompiacimento – i peggiori in graduatoria. Di rado ci si sofferma nell’indagare a fondo gli indicatori utilizzati per stilare la classifica. Se si parla di qualità della vita o qualità ambientale, finanche di qualità dell’aria, non si tratta - come nello sport - di sommare risultati semplici ottenuti da vincite o perdite, ma di combinare indicatori anche molto diversi tra loro e spesso basati su dati non facili da rilevare. Non è immediato intersecare, per esempio, il tasso di impiego femminile con gli indicatori ambientali, o quelli legati alla giustizia. Indagando a fondo, si trovano i risultati parziali per i singoli indicatori, che possono dare immagini molto più sfumate delle realtà descritte da indici di sintesi.
La domanda più rilevante è però: a che cosa servono le classifiche che misurano le performance di città, imprese, università e così via? Primo: sono importanti perché obbligano a costruire basi di dati confrontabili nel tempo e possibilmente scalabili per area geografica. L’informazione è preziosa quanto più a lungo viene raccolta con lo stesso metodo, consentendo così confronti su scale temporali lunghe. Non è banale, basta cambiare il modo di misurare o la grandezza misurata e il confronto non è più possibile. Secondo: le classifiche servono anche a misurare il tasso di raggiungimento di un target, di un obiettivo, sia esso imposto dall’esterno (per esempio da una direttiva, come per i limiti ad alcune sostanze inquinanti), sia esso auto-definito, a livello locale, dal basso. Ebbene, misurare il grado di raggiungimento di un obiettivo serve innanzitutto a spingere all’azione. Spesso si constaterà il non raggiungimento dell’obiettivo stesso nell’arco temporale prefissato, ma la cosa più importante è la perseveranza nella direzione positiva assunta. Terzo, ma non per importanza: le classifiche servono a confrontarsi per migliorare, il cosiddetto benchmarking. Si prende un riferimento altro da noi e si cerca di capire cosa ha funzionato in quel caso, al fine di copiare le «best practices». Imitare quanto di buono altri hanno fatto consentendo di arrivare a risultati importanti: non è sbagliato, anzi, è un metodo virtuoso. In realtà talvolta esiste anche un quarto aspetto non trascurabile nelle classifiche, ovvero la premialità. Non di rado i ranking servono a premiare, non necessariamente in maniera diretta, ma più spesso indiretta, l’ente che ha raggiunto la posizione, ma su questo non è così importante soffermarsi. Dovremmo dunque leggere in questo modo le classifiche, come uno strumento che non ha come finalità il conseguimento di un podio o di un premio, ma che serve a misurare l’andamento, la tensione a migliorare. Gioire quando si avanza è legittimo e sano, scoraggiarsi quando si retrocede è pericoloso. Ogni retrocessione dovrebbe essere occasione di ripartenza con rinnovato slancio.