Von der Leyen

Quella strana voglia di esserci

di Giorgio Perini

Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, ci aveva ormai abituati alle sue escursioni, non appena si presentava un’occasione di visibilità. Talvolta a proposito, più spesso a sproposito, vuoi che si trattasse dei sorvoli in elicottero delle aree colpite dalle alluvioni in Italia e Slovenia – confondendo tra il ruolo delle autorità nazionali e locali e quello dell'Ue - , oppure della visita a Lampedusa per garantire una risposta comune europea, facendo finta che il nuovo patto sulle migrazioni e (soprattutto) l'asilo non sia in una eterna fase di stallo proprio a Bruxelles; o ancora dell’incontro con il raìs della Tunisia per annunciare un accordo subito sconfessato dallo stesso Saïed e comunque moralmente impresentabile (per il trattamento riservato ai migranti subsahariani), oltre a non essere stato concordato preventivamente con tutti gli Stati membri, nell'ambito del Consiglio Ue. Però, andando in visita in Israele subito dopo l'attacco di Hamas, assieme alla presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, ha forse esagerato. Entrambe non avevano il mandato delle istituzioni che rappresentano e che, non bisogna e non devono dimenticarlo, sono organi collegiali. E nel caso della von der Leyen, non si è tenuto conto della necessità di concordare la linea all'interno della stessa Commissione europea con l'alto rappresentante per la politica estera - ovvero il «ministro degli Esteri europeo» - Josep Borrell, e all'esterno, con il Consiglio, pietra angolare dell’architettura Ue, soprattutto quando sono in ballo, come in questo caso, aspetti di sicurezza, con rischio di allargamento del conflitto alle porte dell'Europa. Viene perfino il dubbio che von der Leyen non l’abbia sempre ben presente, l'architettura istituzionale Ue. Per eccesso di decisionismo, dice qualcuno. Io direi per eccesso – se non febbre – di presenzialismo. In chiave di campagna per ottenere la riconferma alla presidenza della Commissione nel 2024? Se continua così rischia di provocare l’effetto contrario. Chi le ha attribuito buona parte del merito per aver saputo affrontare le due grandi situazioni di crisi di questo inizio di decennio – pandemia e guerra russo-ucraina - dimostra a mio avviso di non conoscere in concreto la struttura della Commissione europea, né a livello politico né a livello di «servizi» (gli uffici). Lo dimostrano le facili ironie, anche su notiziari online specializzati, sulla presunta assenza di lavoro «di collegio» accompagnate dalla sarcastica annotazione «così ama chiamarsi la Commissione riunita», che evidenzierebbe l'accentramento in capo alla presidente. La realtà è semplicemente che l’ultima parola, sulle questioni più rilevanti, spetta a quello che viene chiamato «il collegio dei commissari» proprio per rimarcarne la collegialità, che però di norma viene già garantita preventivamente nelle riunioni preparatorie, cosiddette chefs de cab , ovvero dei capi di Gabinetto dei singoli commissari europei. È qui che vengono prese le decisioni che contano, il resto è scenografia, e tecniche di comunicazione. E poi c'è l'apparato tecnico della Commissione europea: una struttura molto più solida, professionalmente preparata e soprattutto indipendente dal potere politico di quanto si possa pensare, che però lavora «a riflettori spenti».

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