LE REGOLE UE

Se lo stato entra in imprese in affanno

di Giorgio Perini

La tentazione di giocare la carta della nazionalizzazione per far fronte a situazioni di crisi industriali apparentemente irrisolvibili è sempre emersa ciclicamente. Ora però, con la crisi economica provocata dalla pandemia e poi con guerra in Ucraina e le sue conseguenze, il ricorso alla nazionalizzazione viene evocato sempre più spesso. E tuttavia sembra che nessuno ne soppesi adeguatamente costi e benefici, né tanto meno si interroghi sulla compatibilità o meno con il diritto europeo. Non che l’Ue imponga la privatizzazione delle attività economiche, anzi adotta un atteggiamento rigorosamente neutrale in questo senso. Ma pretende che le imprese pubbliche e quelle private competano ad armi pari. Quindi niente iniezioni di risorse pubbliche «a perdere», soltanto per mantenere in piedi l'attività, senza un serio piano industriale di ristrutturazione e rilancio, neanche per scopi socialmente apprezzabili come, ad esempio, la salvaguardia dei lavoratori. Ma, se è così, vale la pena mobilitare ingenti risorse pubbliche senza poter fare niente di più di quello che farebbe un imprenditore privato avveduto? In tempi normali la risposta sarebbe pressoché automatica (salvo in ambiti molto peculiari, come settori particolarmente sensibili dell’industria della difesa), ovvero «assolutamente no». Ma non stiamo vivendo certo tempi normali, tanto che l’ingresso dello Stato, anche in maniera pesante, nel capitale delle imprese è stato codificato in maniera molto precisa da norme europee. Ma rigorosamente in funzione di traghettamento (e infatti si tratta di norme transitorie) verso la ripresa e la resilienza del sistema economico (ricordate la vera denominazione del cosiddetto Recovery Fund? Rrf cioè Recovery and resilience facility) e come antidoto a una crescente disoccupazione, difficilmente riassorbibile. Prova ne sia che è già prevista anche la tempistica per la cessione delle quote acquisite dal settore pubblico. Purtroppo, l’impressione è che si voglia sfruttare l'opportunità senza tener conto dei vincoli. Così si ipotizza l’acquisizione, se non la nazionalizzazione forzosa della raffineria di Priolo, nel Siracusano, da cui dipendono 10 mila dipendenti e le loro famiglie (indotto incluso), di cui 1600 dipendenti diretti della società russa Lukoil, in crisi perché non riesce più ad acquistare petrolio da raffinare nonostante garanzie pubbliche (tramite Sace) fino all’80%. Ne ha appena parlato «Report» su Rai3, ma contrariamente a quanto sostenuto nella trasmissione tv, le banche si defilano per non rischiare di perdere il 20% non coperto dalla garanzia pubblica e non per paura di sanzioni secondarie da parte degli Usa. Ma soprattutto, visto che vige il principio «chi inquina paga» (anch’esso stabilito – per fortuna - da norme europee) e Lukoil sembra essere responsabile per 5 miliardi di euro di bonifiche da effettuare, un’eventuale nazionalizzazione non sarebbe di certo un buon affare per lo Stato, che dovrebbe accollarsene l’onere. Nel caso di Ita (ex Alitalia) non si parla esplicitamente di nazionalizzazione, anche se è chiara la preferenza, indipendentemente dalla cordata scelta, per il mantenimento di una significativa percentuale in mano pubblica, direttamente al Tesoro nel caso dell’offerta extraeuropea Certares (opzione peraltro dettata da motivi tecnici, sempre legati alle norme dell’Unione europea), oppure indirettamente, tramite Fs, potenziale partner di Lufthansa dopo il ritiro di Msc. Se non una nazionalizzazione strisciante, cos’è? Per L’ex Ilva, a suo tempo ceduta ad Arcelor-Mittal (scelta pressoché obbligata vista l’apparente maggiore bontà dell’offerta rispetto a quella della cordata concorrente guidata da Jindal Saw) non solo c’è già stata una pesante ricapitalizzazione pubblica tramite Invitalia (40% circa), questa sì resa possibile proprio dalle norme anticrisi transitorie europee, ma si continua a ipotizzare, anziché l’uscita dal capitale sociale, l’acquisizione da parte dello stato della maggioranza, e si fa fatica a immaginare come questa operazione, di segno diametralmente opposto alla disciplina Ue applicabile, possa passare inosservata alla Commissione europea. Insomma, capitalizzazioni come toccasana o piuttosto autogol?

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