L’EDITORIALE

Un'Italia solida i partiti alla prova

di Massimo Mamoli

Il cerchio della storia. Nel gioco dell’oca populista iniziato nel 2018 con il governo giallo verde, gli ex alleati Conte e Salvini, dopo averlo aperto si ritrovano paradossalmente insieme nello stesso punto di frattura in cui è caduta quella parte d’Italia che per diciassette mesi con Draghi ha creduto di essere più forte, più ampia e migliore nel patto nazionale. Quel patto in nome del quale l’ex banchiere centrale per l’ultima volta, dopo un teatrino di partiti incollati all’ambiguità elettorale dei due forni, ha chiesto responsabilità. Perseguimento einaudiano dell’interesse generale, dichiarato con schiettezza ruvida poco politicante ma efficace e netta. Quel «sono qui perché me lo hanno chiesto gli italiani» che ha scavato sotto il basamento argilloso di chi agisce per consenso, e al contempo ha messo a nudo l’orgoglio carsico di chi è stato eletto contro il «non politico», che ha dimostrato però onestà di visione, come attiene agli uomini dello Stato, alle riserve del Paese. E poco importa se nella traversata forse più difficile è lo stesso uomo che ha portato l’Italia fuori dal tunnel della pandemia. Lo stesso che le ha ridato centralità oltre alla credibilità nel fronte euro atlantico contro l’invasione russa dell’Ucraina. Ha difeso l’interesse nazionale trattando con i governi nella tempesta delle materie prime, dei costi energetici, del Pil. Cosa si apre oggi dopo questo giro dell’oca è una strada in salita costellata di incognite. In questa deflagrazione delle responsabilità che nel Nordest ha fatto implodere quello che resta dei 5 Stelle, tenuta ancora più tesa la tormentata corda tra le due Leghe, salviniana e governista, rispetto al monolite Fratelli d’Italia, lacerato il partito di Berlusconi sempre più al traino e decimato dopo le uscite pesanti di Brunetta e Gelmini e quella ipotizzata dalla Carfagna. Ha ragione chi sostiene che in qualche modo Draghi resterà presente in questa assenza assordante. Per lasciare ad attori e processi uno spazio di manovra per rivendicare un metodo - dai dem agli irriducibili del grande centro - o per aggrapparsi a un’agenda che senza un timoniere è probabilmente solo un tatticismo politico in un campo largo che non esiste più. Perché da oggi la sfida è «o noi o loro». E il tema prioritario su cui tutti ora dovrebbero convergere per il futuro del Paese è la risposta a questa domanda: adesso che la scelta è stata fatta e legittimamente gli italiani risponderanno alle urne, quali elementi abbiamo oggi per credere che dalle prossime elezioni uscirà un governo stabile? O il disallineamento tra le ragioni di una politica ansiosa di riprendersi consensi, e quelle dell’emergenza del Paese, rischia di erodere fiducia, alimentare ennesimi evocatori del voto di protesta. E soprattutto, con quali leader in campo e con quale visione nel nostro posizionamento economico, geopolitico, istituzionale nell’assetto europeo. Tra questa domanda e la risposta si frappone un tempo troppo breve e quindi spaventosamente prezioso. E come ha detto ieri il capo dello Stato non sono consentite «pause contro la crisi». Il «partito del Pil», quel fronte trasversale che ha unito categorie economiche, professioni, corpi intermedi, sindaci di ogni estrazione, quell’Italia del whatever it takes per cui bisogna fare le cose che ci sono da fare, che alla dura prova dei mercati che pesano l’instabilità, dell’inflazione, del balzo dei tassi di interesse, delle incognite che si aprono per i costi anche economici di questa crisi, chiede riscontri, regole e impegni coerenti, un governo che decida e una maggioranza matura e solida che lo sostenga. Sono pronti questi partiti?•.

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