L'EDITORIALE

Un voto che riapre tutti i giochi

di Alberto Bollis

Poco da girarci attorno: la vittoria - largamente annunciata - del centrodestra è la vittoria di Fratelli d’Italia. I numeri non lasciano spazio ai “se” o ai “ma”, nonostante i goffi tentativi dei leader sconfitti che cercano di trarsi d’impaccio. Ed è una vittoria di coalizione che non riesce a celare il dato forse più clamoroso dell’intera tornata: il tracollo della Lega, relegata sotto la soglia del minimo vitale del 10%. Più della cocente delusione di un malconcio Partito democratico, più dello stentato risultato del Terzo polo, che poi terzo polo non è, semmai quarto.

A far sbandare il Carroccio è soprattutto il dato registrato in regioni e collegi tradizionali roccaforti “padane”. In Lombardia la Lega viene sistematicamente doppiata al proporzionale dai meloniani quasi ovunque, con una ripetitività che sconcerta.

Che le mosse di Salvini, dal Papeete in poi, siano state una peggio dell’altra è fatto acclarato e che ora diventa plastica realtà numerica: in un paio d’anni sono stati dilapidati i due terzi dei consensi. Il Capitano ha inanellato, con minuzia e precisione certosina, gaffe e scelte sbagliate, senza mancarne neanche una. Fino all’ultimo, incredibile, tweet delle 23 di domenica. In quel cinguettio stonato Salvini, a spoglio iniziato da pochi istanti, ringraziava lo stesso elettorato che invece, un'ora più tardi, si sarebbe scoperto averlo appena malamente scaricato.

Il pessimo punteggio leghista non resterà senza conseguenze: è chiaro a chiunque che i rapporti di forza all'interno del centrodestra oggi sono cambiati. Inevitabile vengano rimesse in discussione tutte le posizioni territoriali che invece potevano sembrare consolidate. Il primo pensiero va all'imminente sfida delle regionali lombarde, dove la candidatura del fedelissimo salviniano Attilio Fontana, checché ne dica il vacillante capo leghista, dovrà essere rivisitata alla luce del terremoto del voto politico: se via Bellerio, «questa» via Bellerio, dovesse incaponirsi, le probabilità di perdere il Pirellone aumenterebbero a dismisura. Fdi, «questa» Fdi, non rimarrà passiva.

Discorso analogo per le comunali bresciane e per l'investitura di Fabio Rolfi a candidato sindaco, altro appuntamento della primavera 2023. Qui la contendibilità è anche più spinta, con un centrosinistra che in città limita i danni e si propone con una solida amministrazione uscente targata Emilio Del Bono che ha fatto e sta facendo tutt'altro che male.

La Lega sembra voler fare orecchie da mercante, dando per scontato che il suo Rolfi sia blindato e vincente. Ma c'è da scommettere sul rapido insorgere di dubbi e distinguo.

Va capito e compulsato, nel contesto, il ruolo diplomatico non marginale di Forza Italia, terza componente della coalizione, uscita senza infamia e senza lode dal responso delle urne. Certo, sono lontani i tempi gloriosi del berlusconismo rampante: oggi gli azzurri sono in cerca di identità e di figure carismatiche in grado di supportare un sempre più... affaticato Cavaliere. A livello territoriale spicca per movimentismo e contatti la figura di Maurizio Casasco. Ma avrà voglia di occuparsi delle beghe regionali e provinciali? Non sarà naturalmente più attratto da possibili incarichi nazionali? Quest'ultima sembra l'ipotesi più credibile.

Sull'altro fronte, tira aria da resa dei conti. E ci riferiamo essenzialmente al Pd, ché il resto della combriccola di sinistra ha peso relativo. Quel 19% stentato a livello nazionale pesa su Enrico Letta come un macigno, tanto da averlo già indotto alla resa. Il governatore dell'Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, scalpita. Potrebbe essere l'uomo giusto per tentare un contropiede immediato alle prossime regionali e amministrative: è la sua specialità riconosciuta.

Letta ha sbagliato tanto, troppo, fin dalla scelta degli alleati. Ha preferito formazioni piccole ed estreme ad altri scenari più solidi e moderati, forse illudendosi di poter fare il pieno di voti dem. Ora paga. Dalla svolta è possibile nasca qualcosa di sfidante.

Rimanendo all'orticello lombardo e bresciano, non ci vuole un genio della matematica per accorgersi come la somma del risultato del Pd e di quanto raccolto da Calenda (e Renzi) consenta per lo meno di avvicinare la coalizione rivale. Se poi si conteggiassero pure i residui locali dei 5 stelle (poca roba, ma comunque utile alla causa) e si pensasse a uno spericolato "campo largo" locale basato su programmi condivisi, nonché a candidati forti, selezionati per tempo senza troppe liti, allora il match sarebbe aperto. Fantapolitica.

L'accoppiata Azione-Italia Viva? Non ha sfondato, desolatamente vero. Tra Calenda e Renzi, è quest'ultimo che ne esce meglio: con quel patto ha comunque piazzato qualche suo uomo in Parlamento, mentre da solo sarebbe sparito dalla scena. Inoltre, il Fiorentino non ci ha quasi messo la faccia, mandando avanti Calenda: generosità, altruismo o perfido calcolo politico? In Lombardia, dove la componente imprenditoriale è sempre stata sensibile alle istanze calendiane e dove il reclutamento di pezzi da novanta come Mariastella Gelmini non è passato inosservato, il Terzo polo è davvero risultato tale: una posizione di relativa forza che nessuno può permettersi di sottovalutare.

Ultime considerazioni. Va ricordata, anzi, va segnata con l'evidenziatore l'estrema umoralità dell'elettorato, capace di gettarsi a capofitto sul leader o sulla formazione del momento e poi di abbandonarlo altrettanto in fretta, seguendo un moto ondulatorio populista che, nello spazio di qualche mese, è in grado di proiettare in orbita o di sprofondare agli inferi chi ha la ventura di salire sull'ottovolante del potere. Ne sanno qualcosa Berlusconi e Forza Italia, il Pd a guida Renzi con oltre il 40% alle europee del 2014, il M5s (33% alle politiche 2018), la Lega salviniana arrivata al 34% alle europee del 2019, giusto per citare qualche esempio. Lezioni delle quali nessuno finora ha saputo far tesoro: c'è da chiedersi se Giorgia Meloni sarà così capace e brava da gestire la fiammata senza bruciarsi. Diciamo che, a istinto, la sua leadership sembra meno sbruffona e più prudente rispetto a quelle che l'hanno preceduta. Non ci stupiremmo nell'apprendere di un suo filo diretto sotterraneo con chi sta concludendo il suo mandato a Palazzo Chigi, per un passaggio di consegne non solo formale, contenente magari anche preziosi consigli e ascoltate dritte.

Infine: come non considerare, come non citare il vero partito «trionfatore» delle politiche 2022? È la componente che nella consultazione ha riportato di brutto la maggioranza relativa, anche se non avrà alcuna rappresentanza negli ormai striminziti emicicli di Montecitorio e Palazzo Madama: stiamo parlando del partito degli astenuti, rapidamente sommerso e dimenticato nel dibattito post-elettorale già proiettato a ipotizzare la squadra di governo. Un 36% abbondante di aventi diritto che, per un motivo o per l'altro, ha marinato i seggi, continuando a sopravvivere senza occuparsi del Rosatellum, delle promesse mirabolanti acchiappa-voti, dei talk e delle maratone televisive, degli equilibri politici.

Quel 36%, oltre un italiano su tre, di disillusi alle prese con bollette, disoccupazione, grattacapi familiari, sanità che non funziona, burocrazia e via discorrendo. Prima o poi qualcuno dovrà pur farsene carico, per il bene della democrazia e per evitare che il malcontento a un certo punto deflagri. Invece sembra che il tema non interessi. E non è un bel segnale.

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