Chi non sa perdere non saprà mai vincere

La Leonessa
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Ci sono gesti così plateali che sono impossibili da non notare. Il razzismo più becero nascosto dietro a rigori sbagliati (e anche a inginocchiamenti farsa prima di iniziare le partite), le bandiere calpestate, gli inni nazionali fischiati senza alcun genere di rispetto. E, se tutto questo non dovesse bastare, c’è anche chi sul campo si permette di offendere mesi di impegno e sacrifici con atteggiamenti lontani anni luce dallo spirito decoubertiano. Calma, signori, è vero: in campo si va per vincere e dei secondi classificati non si ricorda quasi nessuno. Ma il togliersi dal collo le medaglie, seppur d’argento, appena conquistate non è un segnale di eleganza (al pari dell’alzare il mignolo nel bere il tè delle 17 come spiegato nel galateo, altro che «british style») o sportività. Lo sport passa da cicli, fatti di vittorie e sconfitte. Vanno solo accettati, per quanto sia a volte difficile. Provate a chiedere anche agli azzurri. Le lacrime di Franco Baresi e la delusione di Roberto Baggio a Pasadena nel 1994 sono emozioni che hanno aiutato questi grandi campioni a trovare la forza per scrivere altre pagine di carriere straordinarie. Nel 2000 è toccato a Maldini, Nesta, Cannavaro e Del Piero, nel 2012 a Balotelli, Pirlo e Prandelli. Dalle sconfitte, e dall’umiltà, si trova la spinta per vincere.

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