«Adoravo Aretha, ho cantato con Mina La musica è studio»

Giulia Fasolino:  vanta collaborazioni infinite in Italia e oltreconfine. Docente, cantautrice, produttrice: «In una parola, musicista»Con il marito Alfredo Golino: un’intesa che dura da quarant’anniIn studio con Mina: dalle canzoni è nata un’amicizia
Giulia Fasolino: vanta collaborazioni infinite in Italia e oltreconfine. Docente, cantautrice, produttrice: «In una parola, musicista»Con il marito Alfredo Golino: un’intesa che dura da quarant’anniIn studio con Mina: dalle canzoni è nata un’amicizia
Giulia Fasolino:  vanta collaborazioni infinite in Italia e oltreconfine. Docente, cantautrice, produttrice: «In una parola, musicista»Con il marito Alfredo Golino: un’intesa che dura da quarant’anniIn studio con Mina: dalle canzoni è nata un’amicizia
Giulia Fasolino: vanta collaborazioni infinite in Italia e oltreconfine. Docente, cantautrice, produttrice: «In una parola, musicista»Con il marito Alfredo Golino: un’intesa che dura da quarant’anniIn studio con Mina: dalle canzoni è nata un’amicizia

La musica è un istinto. Ma anche «tanto, tanto studio». Un’esigenza-dovere che scoraggia tanti, ma sul volto di Giulia Fasolino dipinge sempre un sorriso. Si chiama passione, fa rima con professionalità. «Suono, canto, scrivo. E odio il karaoke», chiarisce la voce che nei primi anni ’80 scalò le classifiche duettando con Mario Lavezzi in «Dolcissima». Giovanissima, era. Ma aveva già tanta gavetta, tanto studio appunto, alle spalle. E si sentiva. «Si sente sempre, quello che uno ha fatto: il lavoro è fondamentale», sottolinea la cantautrice che con il marito Alfredo Golino, semplicemente uno dei migliori batteristi italiani, ha fondato a Brescia la scuola Cambiomusica. Dedizione e discipline le regola di un’accademia per «ragazzi che fanno sul serio», fucina di talenti ad immagine e somiglianza di chi la guida: una coppia che ha fatto musica con una lista infinita di big. Se si esplora il curriculum targato Fasolino c’è fa farsi girare la testa: ha collaborato con Vasco Rossi e Renato Zero, Lucio Dalla e Mina, Adriano Celentano e Gianni Morandi, Loredana Berté e Mia Martini, Pino Daniele e Jovanotti, Raf e Umberto Tozzi, Enrico Ruggeri e Fiorella Mannoia, senza dimenticare big stranieri come Paul Anka e Liza Minelli, Anastacia e Manhattan Transfer... Ma è solo la punta dell’iceberg. Più la vocazione o il contesto? Di sicuro provenire da una famiglia amante della musica ha aiutato. Su quattro figli abbiamo scelto questa strada in due. A 4 anni studiavo pianoforte e cantavo in un coro di voci bianche, prendevo il mangiadischi e mi esibivo davanti allo specchio. Poi ho studiato al Conservatorio, ma già a 8 anni ho cominciato a partecipare a manifestazioni canore, alle feste di piazza, sorretta dai miei genitori. Mio padre, di origini campane, lavorava nell’esercito. È così che ci siamo trasferiti a Brescia. Io sono cresciuta qui. Cosa si ascoltava a casa sua? Mio papà era appassionato di musica napoletana, mia mamma di opera. Mia sorella ascoltava i Beatles: per me, abituata ad ascoltare Beniamino Gigli, l’impatto fu forte. Ma la folgorazione a 9 anni è stata Aretha Franklin. Mi regalò un suo disco mio fratello, che era un grande fan di Mina. Il mio percorso personale è cominciato così. Cosa le piaceva? Mi sono avvicinata a soul e funky. Il pop è arrivato dopo e nei ’70 ascoltavo i cantautori. Dai 12 anni sapevo cosa fare, ricordo che a quell’età partecipai a un concorso al Piper di Roma, c’era anche Alice. Ero adolescente e già cantavo nei night in Germania. Com’è entrata nel mondo dei grandi dischi? Ottenni un’audizione con Paola Orlandi, che era brava ed esigente. Ero stata caldeggiata da Rossana Casale, che si era trovata bene a lavorare con me. Passai l’esame. Fra un’esperienza e l’altra il successo di «Dolcissima», con Mario Lavezzi. Una canzone stupenda, per cui sono ancora riconosciuta. E una collaborazione duratura con Lavezzi come corista, autrice, co-produttrice e solista. Con la sua regìa è uscito il disco dei Giulia Combo nel ’91. Intanto lei collezionava collaborazioni e partecipazioni in tour e album bestseller anche in Inghilterra e Germania. Ho fatto di tutto, dando sempre il massimo. All’inizio avevo poche influenze italiane e tanta puzza sotto il naso. Ho cambiato idea dopo aver partecipato a «Bollicine» di Vasco Rossi. Non era il mio mito di cantante, ma ho avuto modo di apprezzarne la capacità estrema di comunicazione. È la personalità, è la natura ad ispirare emozioni. Mina è la più grande? Sicuramente. La conosco dai primi anni ’80, dai ’90 ho avuto modo di collaborare con lei anche come autrice, e posso dire che è inarrivabile. Molto intelligente, ha una preparazione musicale alta quanto la sua statura morale. Coraggiosa, coerente. Premia i giovani, riconosce il valore. Con lei ho un rapporto speciale. Ricordo quando è mancato mio fratello. Mio marito stava lavorando con lei al suo nuovo disco. Chiamò per spiegare che sarebbe arrivato più tardi. «Non lasciare Giulia a casa da sola, portala con te», gli disse. Io non volevo, mi lasciai convincere solo perché se non l’avessi seguito mio marito non sarebbe andato in studio e avrebbe perso il lavoro. Sono andata e mi sono seduta in un angolo. Aspettavo che finissero, non ero nelle condizioni psicologiche per essere contenta. Non mi disse né chiese niente, Mina. Mi accarezzò soltanto, con una dolcezza infinita. Sapeva che mio fratello era un suo grande fan. Era il suo modo per ringraziarlo. Da allora siamo diventate amiche. Quando ci sentiamo non parliamo di musica, ma di cucina. Cos’ha significato l’intesa con suo marito Alfredo per la sua carriera? È stata fondamentale. Quarant’anni di convivenza, 38 di matrimonio e siamo ancora qui. Eroici, stoici! Abbiamo adottato un ragazzo che ora ha 21 anni: nostro figlio è uno studente universitario, adora la musica ma non l’abbiamo costretto a suonare nulla. Musicalmente, mio marito Alfredo mi ha insegnato a non approfittare del talento naturale: l’ho visto studiare tutti i giorni, dimostrando così il suo amore per la musica a 360 gradi. Suo padre era un grande jazzista, è stato il suo maestro. Alfredo mi ha aiutato come autrice con i suoi consigli e con l’esempio. Insieme abbiamo vissuto tutti i mutamenti di questi decenni. E insieme abbiamo fondato Cambiomusica. Come vi è nata l’idea? Eravamo giovani, ma volevamo dedicarci all’insegnamento. Franco Mussida aveva creato il Cpm a Milano: l’abbiamo raggiunto e durante il tirocinio ci ha spronato. Aveva ragione lui: insegnare dà più valore a quello che fai. Con la nostra accademia non prendiamo tutti. Solo chi ama la musica e vuole studiarla davvero. Numero chiuso, solo allievi ipermotivati. Forse a Brescia c’è una sorta di timore reverenziale verso di noi perché è vero, non siamo per tutti. Le richieste comunque non ci mancano. Ne siamo felici. E siamo orgogliosi di tutti gli alunni usciti dalla nostra scuola: musicisti come Stefania Martin, Eugenio Curti, Elodea, Greta Cominelli, Massimo Guerini. Per Mauro Pagani viviamo un medioevo dimenticabile, per Eugenio Finardi è un magnifico periodo barocco. Lei cosa pensa? Come Pagani, penso che ci sia una deriva preoccupante per l’uso indiscriminato che si fa della tecnologia. Io i giovani li butto in cantina: «Prendete gli strumenti, fate pratica». Non c’è nemmeno cultura dell’ascolto, la scuola non aiuta. Finardi ha ragione su un fatto: dobbiamo tenere conto del mondo che cambia, mia madre inorridiva per i Rolling Stones. Ma l’autoproduzione può essere una trappola. Tutti postano, ma cosa? Ai miei tempi la selezione era pazzesca. Io fui scoperta da Roberto Dané che ha prodotto Dalla, De Gregori. Girava l’Italia in cerca di giovani bravi. In America i grandi artisti sono come Lady Gaga, sanno cantare, ballare, recitare. La professionalità è questa. Discorso che vale anche in Inghilterra, in Francia, nel Nord Europa. Qua il sistema ha cominciato a collassare quando Berlusconi ha deciso che si potevano abbassare i cachet dei musicisti in cambio di visibilità. Dalle scelte di Mediaset ai tagli delle orchestre il passo è stato breve, ora ce n’è una sola in Rai e neanche lavora. In Italia abbiamo lasciato la discografia nelle mani di persone che si occupavano di piastrelle e si aggrappano ai talent show. Uno su mille ce la fa anche adesso. Sì, ammiro quelli come Mahmood e Levante, che combattono e conquistano ciò che meritano faticando. Ma la discografia in Italia è morta, uccisa da un lassismo che è prima di tutto culturale. La gente ascolta cose mediocri e si abitua alla mediocrità. Poi c’è il problema dei conservatori, mi riferisco ai trienni pop, rock, jazz: dopo 3 anni non puoi avere titoli nemmeno di cultura generale, io ho allievi laureati che non sanno cantare. Gente che in passato è stata illusa e invece non potrà fare questo lavoro. Come ha trascorso il lockdown? Abbiamo fatto didattica a distanza. E ci siamo dati alle fiamme: come da tradizione meridionale mia madre cucinava benissimo, mio padre anche. Verdure, primi piatti. Adoro la parmigiana di melanzane. Ma m’impegno anche con le specialità giapponesi, come il tempura. In quale canzone si identifica? «Respect», di Aretha Franklin. Quando posso la canto. Disco da isola deserta? «Off the wall» di Michael Jackson. E «Give me the night» di George Benson. Produzioni di Quincy Jones. Difatti. Ho cominciato a seguirlo con «The quintessence». Un genio.

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