JET SET ROGER

«Da Bach a Bowie,
rock e letteratura:
tutte le mie sfide»

Jet Set Roger, al secolo Roger Rossini, classe 1973: ha nelle sue corde cantautorato noir, glam, punk, kabarett, music hall e rock and rollBresciano nato a Londra, ha origini italiane, francesi, irlandesi, ungheresiJet Set Roger in concerto ai tempi del suo periodo glamCon Andy Rourke (ex Smiths): un’amicizia e una collaborazione
Jet Set Roger, al secolo Roger Rossini, classe 1973: ha nelle sue corde cantautorato noir, glam, punk, kabarett, music hall e rock and rollBresciano nato a Londra, ha origini italiane, francesi, irlandesi, ungheresiJet Set Roger in concerto ai tempi del suo periodo glamCon Andy Rourke (ex Smiths): un’amicizia e una collaborazione
Jet Set Roger, al secolo Roger Rossini, classe 1973: ha nelle sue corde cantautorato noir, glam, punk, kabarett, music hall e rock and rollBresciano nato a Londra, ha origini italiane, francesi, irlandesi, ungheresiJet Set Roger in concerto ai tempi del suo periodo glamCon Andy Rourke (ex Smiths): un’amicizia e una collaborazione
Jet Set Roger, al secolo Roger Rossini, classe 1973: ha nelle sue corde cantautorato noir, glam, punk, kabarett, music hall e rock and rollBresciano nato a Londra, ha origini italiane, francesi, irlandesi, ungheresiJet Set Roger in concerto ai tempi del suo periodo glamCon Andy Rourke (ex Smiths): un’amicizia e una collaborazione

È il più cosmopolita dei musicisti bresciani. Sa (e ama) trasformarsi come piaceva al Duca Bianco: modello, non a caso, omaggiato recentissimamente. Jet Set Roger, nome d’arte che si sposa a un cognome intonato alla perfezione (Rossini), nato a Londra ma cresciuto all’ombra del Cidneo, ha sangue italiano, irlandese, ungherese, francese. Voce da crooner con spirito punk, polistrumentista dalla tavolozza di colori ampia. Sgargiante quando indugia su toni glam. Malinconica nel suo tributo a David Bowie (5 i pezzi registrati dalla videomaker Moira DellaFiore e interpretati per rockol.it su invito di un altro bresciano eccellente quale Franco Zanetti, con una «Moonage daydream» da brividi). Ma anche scura e riflessiva, come nel suo ultimo concept album «Un rifugio per la notte»: pubblicato a primavera in piena pandemia, magistrale esempio d’incrocio fra rock d’autore, fumetto e letteratura ispirato da un racconto di Robert Louis Stevenson dedicato al poeta maledetto francese François Villon, con le vignette del graphic journalist serbo Aleksandar Zograf già al suo fianco nella precedente sfida «Lovecraft in Polesine» (road movie in musica che prendeva spunto da una misteriosa peregrinazione veneta dello scrittore horror americano).

Difficile catturarla in una definizione, Jet Set Roger... A cominciare da queste stesse tre parole.
Idea mia, del 1996. Avevo concluso l’esperienza Tommy Rot, band dall’attitudine irriverente. Io e Pietro Zola avevamo un motto: mai prendersi troppo sul serio. Per questo, per dire, ero contro l’attitudine-Nirvana, anche se avevo scoperto Cobain grazie a mio fratello Andrea che viveva a Los Angeles e un giorno mi mandò la cassetta di «Nevermind». Anche l’estetica del video di «Smells like teen spirit» mi colpì, ma il suono era deprimente per me che venivo dal rock: da Rolling Stones ed Ac/Dc, l’hard di Deep Purple e Thin Lizzy. Grazie a Rudi, altro mio fratello, avevo scoperto Mick Jagger. Venivo da lì e nel ’96 pensai che alludere al Jet Set fosse una bella forma di sberleffo punk. Leggevo Francis Scott Fitzgerald, allora. E ascoltavo i New York Dolls.

Mica male per un ragazzo cresciuto al Conservatorio.
Ho fatto le medie all’istituto Venturi, sì. Lì ho conseguito il diploma di quinto anno di pianoforte quando era già diventato Conservatorio Luca Marenzio. Nel frattempo ho portato avanti gli studi al liceo scientifico, prima Copernico poi Luzzago, e all’università in Economia e Commercio.

Nato a Londra: cosa l’ha portata a Brescia?
La storia della mia famiglia comincia quando mio nonno Oszkàr Charmant, figlio di Oszkàr, dopo il crollo dell’impero e la perdita di tutti i beni di famiglia, riparò a Londra, dove si mantenne lavorando nei Docks. Dopo qualche tempo mise da parte un po’ di soldi, e credo se ne fece anche prestare a sufficienza per acquistare un piccolo podere in Ghana, che all’epoca era colonia inglese. Lì iniziò un’azienda di legname che diventò fiorente. Quest’azienda diede lavoro ad alcuni dei miei zii che si trasferirono in Africa, e lì si sposarono. Siamo una famiglia molto ramificata, assolutamente meticcia. Il mio bisnonno fu l’ultimo ministro plenipotenziario del regno d’Ungheria, prima del crollo dell’impero austroungarico. Gli avi di mia madre passarono da Versailles a Vienna. L’incontro con mio padre avvenne al Sestriere, sulle piste da sci. Lui lavorava all’Italsider a Genova, poi gli offrirono un posto in Valsabbia. Quindi divenne dirigente d’acciaieria a Brescia.

Un mix eccezionale di culture. Fra i suoi ascolti trovava spazio la musica italiana?
Fondamentalmente Edoardo Bennato. Qualcosa della Pfm, di Jannacci. Il primo demo nel ’95 era in inglese. Ma una sera al Monasterock di Sant’Eufemia insieme a Pietro Zola fui folgorato dagli Strafottenti, di cui poi entrai anche a fare parte. Il loro immaginario proveniva da Skiantos e Cccp.

Ironia, irriverenza. Il passo verso il glam era decisamente breve.
Il glam è una battuta musicale lasciva ed è stato la mia forma d’espressione per un po’. La mia attitudine è aperta. Quindi dopo aver scoperto gli Strafottenti in tre giorni tradussi tutti i miei testi in italiano.

Da allora ha pubblicato 7 album: «La vita sociale» e «It’s Christmas in the Jet Set», «The great lost Glam Rock album» e «Piccoli uomini crescono», «In compagnia degli umani» prima dei concept «Lovecraft nel Polesine» e «Un rifugio per la notte». Ha tenuto centinaia di concerti partecipando a festival come Italia Wave e Tora Tora, ha collaborato con Omar Pedrini e Andrea Chimenti, Andy Fumagalli dei Bluvertigo, Andy Rourke degli Smiths e Marco Pirroni di Adam & the Ants. È approdato al mondo della narrativa realizzando reading musicali con scrittori come Marco Peano e Nadia Busato, canzoni e concerti a tema per il collettivo Wu Ming. Se dovesse individuare un momento di svolta nel suo percorso?
È stato importante dar vita ai concerti di Natale, reinterpretare i classici della tradizione mi ha fatto rivivere l’atmosfera delle riunioni di famiglia. C’era musica, sempre. Ma il vero cambiamento è stato nel 2012. Dopo un’esperienza finita male con la Sony, credevo molto insieme a Pietro al disco «In compagnia degli umani», che invece non ebbe il successo sperato. Il gruppo si sfaldò e a quel punto decisi di dimostrare che potevo essere cantautore a tutto tondo.

Un po’ come Bowie aveva ucciso Ziggy Stardust passando ad altro. Lei ha abbandonato il glam confermando di possedere una versatilità che per la verità si intuiva già prima. Soprattutto negli show.
Per un periodo della mia vita, da ragazzo, ho frequentato assiduamente il Piccolo Cinema Paradiso. Silvano Agosti mi diceva che nella mia musica mostravo fino a un certo punto, che non usciva l’anima. Gli ho dato ragione ampliando i miei orizzonti, senza rinnegare nulla del passato.

Compreso il primo disco comprato? Cos’era?
Ero a Innsbruck, in collegio. Avevo 12 anni, entrai in un negozio e vidi «Live after death» degli Iron Maiden. Non sapevo nemmeno come si comprassero i dischi. Il commesso mi mise le cuffie e fu come decollare! L’hard rock mi aveva conquistato. M’innamorai del glam, invece, attraverso i Motley Crue. Le influenze sono sempre molteplici, è bello ogni giorno a casa vedere come reagisce e s’appassiona a 11 anni Dora, figlia mia e di mia moglie Paola.

Tempi duri soprattutto per chi deve crescere durante una pandemia. Questi scenari distopici saranno d’ispirazione?
Ne sono certo. Le nuove generazioni scriveranno pagine sorprendenti, non possiamo neanche immaginare quali strade artistiche sapranno percorrere.

Lei quali seguirà?
C’era fermento intorno al mio ultimo disco, tante date già in programma anche oltreconfine: in attesa che il mondo riapra, e spero succeda quanto prima, ora dovrei scrivere il terzo capitolo-concept con Zograf, ma preferisco prendermi una pausa e dedicarmi a un album di cover in italiano. Lo progetto dal 2012.

Il suo brano in cui si riconosce di più?
«La madre di Rachele»: ha una struttura classica, contiene tutte le mie anime.

E se potesse scegliere una canzone non sua, quale vorrebbe aver scritto?
Qualcosa di Bob Dylan. O di John Cale.

Ha hobby imprevedibili?
L’altra mia dimensione è il lavoro. In famiglia abbiamo diversificato: Rudi è avvocato, Andrea giornalista a Rai 3, nostra sorella maggiore Anne è Collaboratore Esterno Linguistico per la facoltà di Giurisprudenza e insegna inglese al Gambara. Io sono direttore delle operations di Agroittica, uno dei maggiori produttori di caviale al mondo. Sto portando avanti un ambizioso piano di riorganizzazione della supply chain. In precedenza ho maturato esperienze in Ruffino/Constellation Brands, collaborando come relatore con la Luiss e con l’Università degli studi di Firenze.

Un altro Roger?
In realtà non c’è conflitto fra Bach e la logistica. Alla fine conta il senso delle cose. E conta l’anima: ciò che si è, prima di quel che si fa.

Suggerimenti