«E dopo Sanremo e Arezzo Wave... Il mio primo disco»

Luca Gallina: chitarrista e autore nato a Lonato il 10 novembre 1967, ha suonato ad Arezzo Wave e al Festival di Sanremo FOTO DE CHIRICO«Gallus» in compagnia di  Giuseppe Mondini e Giovanni FerrarioOltre trent’anni da chitarrista sui palcoscenici di mezzo mondo
Luca Gallina: chitarrista e autore nato a Lonato il 10 novembre 1967, ha suonato ad Arezzo Wave e al Festival di Sanremo FOTO DE CHIRICO«Gallus» in compagnia di Giuseppe Mondini e Giovanni FerrarioOltre trent’anni da chitarrista sui palcoscenici di mezzo mondo
Luca Gallina: chitarrista e autore nato a Lonato il 10 novembre 1967, ha suonato ad Arezzo Wave e al Festival di Sanremo FOTO DE CHIRICO«Gallus» in compagnia di  Giuseppe Mondini e Giovanni FerrarioOltre trent’anni da chitarrista sui palcoscenici di mezzo mondo
Luca Gallina: chitarrista e autore nato a Lonato il 10 novembre 1967, ha suonato ad Arezzo Wave e al Festival di Sanremo FOTO DE CHIRICO«Gallus» in compagnia di Giuseppe Mondini e Giovanni FerrarioOltre trent’anni da chitarrista sui palcoscenici di mezzo mondo

Non succede. Può capitare, certo, ma non succede. Di solito. Luca Gallina in arte «Gallus», però, di queste quisquilie se ne infischia. A lui è successo, di esordire con il primo disco dopo una carriera già lunga e premiata. E chi altro può dire di aver suonato una vita (più di trent’anni) e calcato palchi tra i più invidiati (da Arezzo Wave al Festival di Sanremo) prima di debuttare col primo album solista? «Ho fatto tutto all’incontrario», sorride il chitarrista-e-autore, che approda a questa sua prima volta con un’esperienza da veterano alle spalle. E si sente, nelle 9 tracce di «Pluslapsus»: blues, rock e psichedelia shakerati in compagnia di Beppe Mondini alla batteria (Cisco, Nanabang!, Ettore Giuradei) e Giovanni Ferrario, bassista e produttore artistico (PJ Harvey, Morgan, Scisma, Hugo Race). Un soffio di stoner qua («Jinsi» piacerebbe a Josh Homme), l’attitudine-Doors là (la title-track, ma non solo). Disco arioso di paesaggi ampi, da godere a passi ben distesi. Perché ha aspettato tanto? La verità? Ero appagato. Cioè, mi andavano bene le situazioni che vivevo man mano. Ho sempre suonato ed ero sempre il compositore delle band di cui facevo parte. Paradossalmente più facevo più m’impigrivo rispetto all’idea di fare qualcosa di solo mio. Ma la cosa era nell’aria, prima o poi doveva compiersi. Ora è realtà. Un disco che potrà presentare al Monamì sabato prossimo, finito il lockdown. Tempi ancora cupi, ma si può tornare a suonare dal vivo. Non vedo l’ora. Lei peraltro l’ha fatto spesso anche in questi mesi difficili, in particolare con il duo Cadillac Circus in compagnia dell’inimitabile «Slick» Stephen Hogan. Grande talento bresciano, Steve. Con i Cadillac Circus abbiamo lavoricchiato, sì. La coppia funziona molto bene. Facciamo cover ma visionarie. È divertente. Niente cover invece in «Pluslapsus». Disco strumentale che nasce da un’esigenza. Da provini essenziali, ascoltati insieme a Giovanni e Giuseppe. Abbiamo iniziato a lavorare intorno a embrioni di pezzi lo scorso settembre, ma considerato il lockdown e il fatto che avevamo tutti anche altre cose da fare è stato tutto molto veloce. Abbiamo provato i brani 2-3 volte l’uno, lasciandoli scarni per mantenere la freschezza, l’immediatezza di una jam. «Pluslapsus» regala riff nitidi e prende vie imprevedibili, le insegue con suoni analogici e un’aura vintage da colonna sonora sospesa tra «Blow up» e «Twin peaks». Ha un’atmosfera cinematografica, sì. Fa pensare al viaggio. L’abbiamo registrato in presa diretta grazie al 40 Watt Studio da Stefano Stefanoni. Sovraincisioni, quasi nessuna. Non è un disco jazz, ma c’è una mentalità jazz: banalizzando, mano libera ai musicisti. Sì! Il nostro modo di lavorare è questo. Non è una produzione pop, è una bella sfida. Stiamo lavorando alle versioni che proporremo dal vivo. Mondini, Ferrario: come nasce l’idea del trio? Siamo amici. Il progetto è partito inizialmente dalla mia voglia di fare qualcosa con Mondini, dopo aver condiviso due tour con Elizabeth Lee. Beppe è originale, creativo. Cercavo un terzo elemento, poteva essere un organista, un bassista, una chitarra baritona; Mondini ha proposto Giovanni e mi son detto «Interessante, se è interessato!». Lo era. E meno male. Per me è la prima volta in trio così: non siamo personalità complementari, che si compensano; siamo abbastanza simili, estrosi e istintivi. Se tutti e tre siamo connessi è una cosa forte, sennò ci perdiamo. Come tre fantasisti di una squadra di calcio. Esattamente. Cercava qualcosa di particolare prima di cominciare a comporre? No, ho seguito l’ispirazione del momento perché credo che sia un periodo di saturazione totale per tutti. Non sono prevenuto, non ho nulla contro la trap, ma oggi come oggi non ha senso porsi obiettivi a tavolino. Meglio lasciarsi andare, tanto quando spunta una come Amy Winehouse funziona da sola, per quanto il supporto serva sempre. Un chitarrista che stima? Mi piacciono i panciosi. Gli istintivi. Jeff Beck, John Frusciante che mi fa impazzire perché è l’anti-guitar-hero, non ha un gran tecnica ma che importa, ha tanti di quei riff! E poi Eddie Van Halen, il primo Yngwie Malmsteen, Jack White. Le sue radici sono fra Lonato e Cremona: dove e come ha cominciato? Nel bar di famiglia, grazie a un cliente di nome Enzo Moreni che mi ha dato un paio lezioni. Avevo 7-8 anni. «Vedo che vai bene», mi disse. «Ti porto dal maestro». Fausto Betelli, il fornaio del paese: un pioniere della chitarra, dedito allo yoga e commerciante d’arte. Ho proseguito gli studi con il francese Eric Fievet, esplorando il fingerstyle moderno, gli autori classici, l’irish, il folk. Intanto formavo il primo gruppo, a 14 anni. Cosa suonavate? Eravamo fan dei Genesis: facevamo prog, tutti pezzi miei. A un certo punto ho smesso di suonare la elettrica, frequentavo il Conservatorio dove dopo aver preso il diploma di teoria e solfeggio sono arrivato al quinto anno di chitarra classica. Poi nel 1988 ho conosciuto un cantautore mantovano, Giuseppe De Chirico, abbiamo iniziato a collaborare e siamo andati in tour per il mondo. Svizzera, Olanda, Francia, Germania, Stati Uniti... Nel frattempo avevo ripreso l’elettrica, anche perché non riuscivo a farmi crescere le unghie. Ma l’imprinting classico rimane. La svolta? Mia madre aveva preso un campeggio da gestire: «Resti con noi o vai in tour?». Sono andato in giro con De Chirico. Con i Lady Oscar ho cominciato a scrivere brani originali italiani, a vincere concorsi sul lago di Garda nei primi anni ’90. Dalle ceneri di quella band sono nati i Mexcal, con cui ho suonato ad Arezzo Wave. Con i Pincapallina invece è arrivato a Sanremo, storia di vent’anni fa. Nell’edizione del 2000, sì, nella sezione nuove proposte, per poi realizzare un album prodotto da Roberto Colombo. Ho imparato tanto esplorando il mondo del pop dall’interno. Dal 2002 con Elizabeth Lee, quindi il progetto Cozmic Mojo anche in veste di produttore e direttore artistico. Un sodalizio duraturo. Probabilmente l’avventura che ho sentito mia fino in fondo, sul piano del suono. Elizabeth è veramente blues, starle vicino mi ha pure fatto imparare parecchio. Cosa insegna invece ai suoi allievi? Ne ho sempre avuto tanti, per fortuna. Non è facile, ci vuole empatia. Io faccio fatica a motivare. Mi piace quando si crea una dinamica con i ragazzi. Cosa consiglia a un giovane che vuole fare il musicista? «Fa’ quello che senti». Non lo scoraggio certo dicendogli che è dura. La vita è un’esperienza, bisogna avere una visione un po’ d’insieme della cosa: se sai fare, lo spazio lo trovi. Di talenti è pieno il mondo, ma a volte è gente che non sa gestirsi. Se ti organizzi e sai muoverti, andare dove c’è fermento e metterti in gioco, magari anche all’estero... Ce la puoi fare. Non serve, anzi è deleterio fare confronti con i fenomeni da baraccone: c’è spazio, eccome, anche per un Frusciante che virtuoso non è. Alla fine il segreto è vibrare in un certo modo. Se non dai la dimensione giusta alle situazioni, ti sentirai in un mondo di supereroi e ti sembrerà impossibile battere la concorrenza. In caso contrario, ci sono sempre possibilità. E quello che deve succedere, succede. La canzone che vorrebbe aver scritto? «The musical box», dei Genesis. Il disco che vorrebbe ascoltare adesso? «Pink moon», di Nick Drake. Il palco che sogna? Quello del Montreaux Jazz Festival. Rudy Rotta e Roberto Ciotti ci sono andati. Se mi invitano...

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