«Iana», l’impresa di fare i conti con l’Alzheimer

La copertina  della pubblicazione
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Gli encefalogrammi delle stagioni umane hanno picchi che sono crochi e abissi di ghiaccio; sempre s'aspetta il disgelo grazie al quale sbocciano anni, lunghi come giorni lunghi. Qualche volta no, certi tempi son mutili di primavere. Però «Iana», presentato ieri alla Libreria Tarantola 1899 di via Porcellaga, ha avuto le sue secessioni belle. Le racconta la figlia, Daniela Caraffini, mentre teme che la malattia della madre – quell'Alzheimer uguale a una montagna pungente – le cancelli. Sono le sue eredità raccolte, i sentimenti segreti di colei «Nata a Manerba e finita a Gambara...». «Ho dovuto cedere alla pressione che provavo, perché le parole si erano tutte ammassate nella mia testa e la diga che avevo eretto non era sufficientemente solida per arginarne la piena», ammette l'autrice (i natali nel '59, le passioni di vogue ed écriture). Che nel guardarsi, su spazzola e specchio, rivede il genitore in una somiglianza impressiva, e quasi ricolloca il sé nelle memorie dell'altra, di quei viaggi («qui eri a Cancún... e qui, guardati, eri in Cina, in India, in Yucatan») oramai dimentichi, oramai arrabbiati. Nell'instaurare un linguaggio a più voci, compenetrato in anni incolloquiabili (2019 e 1957, e ancora avanti e poi indietro), Caraffini frange il muro del distacco che il male impone. Cadendo a volte sui ginocchi («La vita continua il suo corso imperterrita, non aspetta nessuno, e non le importa se oggi è il giorno del funerale di mia madre»), altre a pancia all'aria («Il senso di colpa è quella cosa che ti cresce dentro come la pasta della pizza e continua a moltiplicarsi fino a quando ti ha tolto il respiro, ti ha azzerato l'ossigeno»), quasi sottoterra («Se la felicità non si può condividere che felicità è?»). Le crepe riescono, sono brecce attraverso le quali Iana torna a saltar scuola e tirare sassi nel lago mentre le sardine luccicano, le sorellanze impoveriscono («Non sorrideva mai, era quadrata come una scatola di legno»). La vita dei momenti col capofamiglia, le regole imposte, le regìe definite, le proibizioni, i punti fermi, i Platters. Quando ancora succedevano i colpi di fulmine, alle feste guancia-contro-guancia. La scrittrice arranca sotto gli ingranaggi d'un capitalismo affettivo e ne sguscia sempre al di qua: nel presente appena trascorso: mamma cantilena col tabacco una solitudine disordinata, mostra i calli dell'anima: «Guarda, è tutto chiuso: le foglie sono chiuse, le piante sono chiuse, le finestre sono chiuse, anche io voglio essere chiusa». Tra lutti e seconde opportunità, viaggi fatti e cancellati, secoli di convivenze senza conoscersi mai, qui si capisce come nessuno resti mai davvero indietro, mai totalmente sordo – ai richiami tesi del puro affetto, e al «sapore della normalità, né dolce né salato».•.

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