LA GUERRA VISSUTA DA FASCISTA

di Maurizia Veladiano
Il libro di Giuseppe Berto, in una nuova riedizione di Neri Pozza
Il libro di Giuseppe Berto, in una nuova riedizione di Neri Pozza
Il libro di Giuseppe Berto, in una nuova riedizione di Neri Pozza
Il libro di Giuseppe Berto, in una nuova riedizione di Neri Pozza

C’è una grande sincerità in questo libro. Antieroico, antiretorico, onesto fino all’autolesionismo, «Guerra in camicia nera» di Giuseppe Berto - ripubblicato recentemente da Neri Pozza – racconta il conflitto sul fronte africano attraverso lo sguardo di chi l’ha vissuto dalla parte sbagliata della storia. Nato a Mogliano Veneto nel 1914, a vent’anni Berto partecipa come volontario alla guerra d’Abissinia. Ritorna in Africa nel settembre del ’42 con il grado di tenente addetto ai rifornimenti. Dopo El Alamein e la catastrofica battaglia di El Hamma in Tunisia, si unisce al 10° Battaglione «M» con il quale rimane fino alla cattura avvenuta il 13 maggio 1943. Nel capo di prigionia texano di Hereford scopre la passione per la scrittura. Al rientro in Italia, le bozze dei suoi primi lavori confluiscono nel romanzo «Il cielo rosso» (Longanesi, 1946) che ottiene uno straordinario successo internazionale. Un avvio col botto, che subisce un’imprevista battuta d’arresto con i due libri successivi, «Il brigante» e «Le opere di Dio». Nonostante ciò decide di mettere nero su bianco la sua travagliata vicenda sul fronte africano in un momento storico, la metà degli anni Cinquanta, non certo favorevole a operazioni di questo genere. Soprattutto perché la narrazione ripercorre senza sconfessarlo («non sono fascista, ma non sono nemmeno un antifascista») il suo turbolento passato in camicia nera. Scrive infatti Berto nell’introduzione: «Spero che il mio scritto conservi sufficiente sapore di realtà da testimoniare in me, e in tanti altri che come me servirono il fascismo con la convinzione di servire l’Italia, una essenza morale valida anche oggi». Un’affermazione al contempo orgogliosa e arrischiata, che certo non piacque all’establishment culturale dell’epoca, al punto che l’autore veneto, attaccato da più parti, cadrà in una profonda depressione. Ne uscirà solo nel 1964, quando con «Il male oscuro» si aggiudicherà i premi Campiello e Viareggio. Eppure, senza il passaggio catartico e crudele del suo controverso diario di guerra, «Il male oscuro» non sarebbe probabilmente mai stato scritto. Ed è anche in questo senso che Berto definisce «Guerra in camicia nera» (lo ricorda il curatore Domenico Scarpa nella sua bella prefazione) un libro spartiacque, in cui si coglie nitidamente «quell’ironia che, unita alla pietà, dà l’umorismo». La forma del diario in presa diretta, risolto con stile nitido, veloce, ironico e autoironico, gli consente di restituire per intero il senso di un’esperienza alla quale aveva aderito con lo slancio appassionato di una giovinezza impaziente d’immergersi in un agone politico che spingeva con forza in un’unica direzione. «Oggi – disse negli anni sessanta l’autore di Mogliano - si parla in termini di scelta, ma i giovani allora non scelsero. Io mi trovai da una parte dopo aver cambiato idea un centinaio di volte. Tutto successe perché nessuno seppe guidarci veramente. I giovani erano soli». Una solitudine che il cameratismo fascista, la sua euforia, il nazionalismo spinto, la dialettica pragmatica e razionalista, per qualche tempo riuscirono a colmare, ma che alla resa dei conti rivelò un’intelaiatura fragile, corrotta, incapace di rispondere a quell’ideale autenticamente rivoluzionario che aveva ipnotizzato un’intera generazione. «La guerra in camicia nera» di Berto è un libro dolceamaro, tra le cui pagine l’intento di documentare senza omissioni e indulgenze i nove mesi trascorsi sul fronte africano, fa il pari con la sua volontà di non misconoscere un’esperienza come quella della guerra fascista nella quale aveva creduto, per la quale si era battuto, e che sentiva di poter espiare, scrive Domenico Scarpa, «soltanto raccontandola fino in fondo, senza provare vergogna nemmeno per la propria mancanza di vergogna nel farla». Nonostante siano trascorsi oltre sessant’anni dalla sua prima pubblicazione, la sensazione è di trovarsi di fronte a un lavoro fresco, moderno, stilisticamente pulito, niente affatto convenzionale. Lo sguardo è spesso impietoso, quasi abrasivo, e tuttavia all’ironia si mescola qua e là un’irriducibile melanconia. Un calderone limaccioso e confuso, quello trascorso sotto i cieli africani, da cui emerge «l’infinita tristezza che si prova – come rileva lucidamente Scarpa - per una guerra perduta, anche se era una guerra sbagliata». Quanto alle motivazioni che lo spinsero a raccontarla, Berto spiega di averlo fatto «non per quelli che sono stati camicie nere, ma per gli altri, magari per quelli che furono loro avversari e nemici, perché vorrei che riconoscessero nei miei soldati una sostanza umana comune a tutti i soldati e a tutti gli eserciti. Per far sì che la guerra sia veramente perdonata». Troppe ferite ancora aperte impedirono nel ‘55 che questa richiesta potesse essere ascoltata e condivisa. Oggi il lavoro di Berto appare attraversato da un’inquietudine che lo rende vivo testimone del travaglio interiore di un uomo che ha vissuto gli anni cruciali della giovinezza sull’orlo di un precipizio. «Il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore», aveva annotato l’autore trevigiano nel frontespizio de «Il male oscuro» citando il Prometeo di Eschilo. Ecco allora che la scrittura intesa come balsamo, espiazione, terapia di una nevrosi, diventerà il segno distintivo della sua narrazione, del suo continuo emergere e inabissarsi nelle sabbie mobili di un conflitto esistenziale che la sofferta trama di «Guerra in camicia nera» porterà allo scoperto rivelandone la cifra incandescente e nuova. •

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