SEVERINO CHE PORTÒ BRESCIA NEL MONDO

di Chiara Comensoli
Il sindaco di Brescia Emilio Del Bono con Emanuele Severino  durante la fondazione dell'ASES nel 2017
Il sindaco di Brescia Emilio Del Bono con Emanuele Severino durante la fondazione dell'ASES nel 2017
Il sindaco di Brescia Emilio Del Bono con Emanuele Severino  durante la fondazione dell'ASES nel 2017
Il sindaco di Brescia Emilio Del Bono con Emanuele Severino durante la fondazione dell'ASES nel 2017

Le opere di Emanuele Severino (1929-2020), il filosofo bresciano più noto del 20° secolo italiano, sono tradotte in 8 lingue: dal 2015 il pensatore pluripremiato divenne cittadino onorario dell’Antica città di Elea e del paese natale della madre: Bovegno. È il 1970 ed Emanuele Severino varca la soglia dentata del Palazzo del Sant’Uffizio. Al suo interno lo attendono gli esperti della Santa Sede, guardiani della dottrina, incaricati di analizzare, esaminare, vagliare i suoi scritti. Lo stesso enorme arco a tutto sesto, contornato da una serie continua di finestre simili a occhi spalancati scrutanti la città, nel ’500 serviva a inghiottire dalle strade romane ogni tipo di eresia brulicante nell’aria: tale era l’accesso al palazzo dell’Inquisizione. L’enorme arco e i solerti fanali puntati sulla miscredenza erano gli stessi all’arrivo in città di Galileo Galilei, convocato per subire un processo nel 1633 che terminerà con una condanna per «veemente sospetto di eresia» e la celeberrima abiura forzata. È più di 300 anni dopo che il filosofo viene ingurgitato dal medesimo arco vorace sotto gli occhi stanchi, ma pur sempre spalancati, di una delle istituzioni più antiche della città. Se, per l’illustre astronomo pisano galeotto fu il libro «Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo», per il filosofo dell’eternità dell’essente fu l’articolo «Ritornare a Parmenide», scritto e pubblicato nel 1964. La sua posizione all’interno dell’Università Cattolica di Milano di professore ordinario era precaria: nessun occhio a fanale della facciata del palazzo si sarebbe chiuso per lui. Uno dei definitori del Sant’Uffizio, Cornelio Fabro, scrisse che Severino «critica alla radice la concezione della trascendenza di Dio e i capisaldi del Cristianesimo come forse finora nessun ateismo ed eresia hanno mai fatto». Ciò che era precario, si ruppe definitivamente: il responso del Sant’Uffizio dichiarò la completa incompatibilità fra il pensiero filosofico del professore bresciano e la dottrina cattolica ivi custodita. Il testo incriminato conferiva al Cristianesimo, senza mezzi termini, il titolo di «folle» dottrina, come folle era l’alienazione nella quale è piombata la storia dell’Occidente a partire da Platone. Sopra la sua, secondo Severino, cominciarono a impilarsi una sull’altra una serie di teorie costruite per secoli su base errata: il problema nasce dal modo in cui i successori di Parmenide cercarono di superare la posizione del presocratico innestando l’embrione del nichilismo. Fermare l’avanzata del nichilismo significa opporsi ad Aristotele, il quale sosteneva che «è necessario che l’essere sia quando è; e che non sia quando non è»: pertanto quando l’essere non è, allora è il nulla. Costrutto, questo, alla base del nichilismo moderno, il quale si identifica in «ogni posizione filosofica che concepisca la realtà in genere o alcuni suoi aspetti essenziali, dai valori etici alle credenze religiose, dalla verità all'esistenza, nella loro nullità». Severino intende superare l’assunto sostenendo come il succedersi degli eventi consista non in un venire a essere e cessare d’essere delle cose, ma in un comparire e uno scomparire dell’essente, il quale è eterno. Pensiamo a un oggetto fatto transitare davanti a uno specchio: quando ne esce l’oggetto non è sparito, non smette di esistere, ma scompare solo dal campo visivo. Ne consegue che ciò che è eterno non può, in nessun caso, coincidere con il nulla. Ecco superato il nichilismo, che imprime il suo sigillo nella storia dell’Occidente perché tutte le forme della cultura che ha partorito parificano l’essere al niente. Da tale convinzione deriva l’odierno dominio della tecno-scienza sul mondo, volta a produrre e, insieme, distruggere senza limiti e ritegno. Dunque dove si annida il dissidio con la Chiesa? Dalla convinzione di Severino che l’essere, inteso come totalità degli enti, non possa essere eterno e immutabile senza che lo siano anche tutti gli enti che esso comprende. L’eternità, se si attribuisce al mondo, la si sottrae a Dio. In fuga dal nichilismo - e dalla contestazione ecclesiastica - approda a Venezia dove, con alcuni colleghi, fonda il direttivo della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Ca’ Foscari. Nel frattempo continua a scrivere attribuendo alla sua opera un’andatura ascendente: confuta, dissacra, smaschera le millenarie convinzioni della nostra metà di mondo. Dice di lui un collega dell’ateneo insulare: «Con Severino scompare un pensatore rigoroso, implacabile, dalla logica acuminata, che non dà tregua. Rimane la sua opera, imponente e preziosa, destinata a imporsi come un classico della filosofia». •. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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