«Squid Game», la serie Netflix che sta conquistando il mondo

di Luca Canini
«Squid Game» ha conquistato il primo posto nella classifica dei titoli del momento sulla piattaforma Netflix
«Squid Game» ha conquistato il primo posto nella classifica dei titoli del momento sulla piattaforma Netflix
«Squid Game» ha conquistato il primo posto nella classifica dei titoli del momento sulla piattaforma Netflix
«Squid Game» ha conquistato il primo posto nella classifica dei titoli del momento sulla piattaforma Netflix

È il fenomeno Netflix del momento, la serie sulla bocca di tutti che trainata dall’effetto-passaparola sta conquistando il mondo: «Squid Game» è sbarcata anche in Italia e un po’ a sorpresa ha fatto il botto. Primo titolo nella classifica Top 10 da almeno un paio di settimane: tutti ne parlano, tutti l’hanno vista o la stanno vedendo, qualcuno l’ha mollata dopo il quarto episodio, qualcun altro già freme per la seconda stagione, parecchi ne sono rimasti entusiasti e altrettanti profondamente delusi (in questi casi il giudizio tende sempre a polarizzarsi, si sa). Mica poco per un prodotto televisivo che arriva dalla Corea del Sud e che per di più viene proposto in versione originale con i sottotitoli; uno sforzo disumano e antistorico per il pigrissimo pubblico italiano, pervicacemente riottoso nei confronti di ogni forma di tutela del non doppiato (ne sa qualcosa Rai Movie, che per non osare troppo - in lingua originale con i sottotitoli? Ma siamo pazzi! - ancora si ostina a propinarci «I cancelli del cielo» in formato patchwork, con salti tra l’inglese e l’italiano che fanno venire voglia di buttare il televisore dalla finestra). Insomma, alla faccia della provenienza esotica e dello scoglio sottotitoli, «Squid Game» viaggia alla grandissima. Cortocircuito destinato a non lasciare il segno? Moda passeggera? Effetto emulazione tipico della compulsività seriale? O c’è qualcosa di più e di diverso in ballo? Difficile inquadrare il fenomeno con precisione. Di certo il boom di visualizzazioni invita a riflettere. In primis sulla crescente orientalizzazione del gusto occidentale. A «Parasite» e alla breccia aperta da Bong Joon-ho abbiamo già accennato a ridosso del trionfo di «Nomadland» nella notte degli Oscar, così come abbiamo provato ad analizzare qualche tempo fa l’impatto di pellicole come il cinese «The Eight Hundred», lanciato in grande stile alla conquista del globo (missione fallita, adesso possiamo dirlo), e il marveliano «Shang-Chi e la leggenda dei dieci anelli». L’asse di rotazione dell’immaginario collettivo si sta spostando verso la profonda Asia: lo sanno benissimo dalle parti di Pechino, Tokyo e Seoul, ma lo sanno benissimo anche a Los Angeles e dintorni. Non a caso «Squid Game», pur non beneficiando di una spinta decisa da parte del distributore, è stata resa disponibile in oltre 90 Paesi e rischia di diventare la serie Netflix più vista di sempre. Da non sottovalutare poi l’impatto squisitamente visivo: i rimandi evidentissimi all’universo dei manga e a quello dei videogiochi catturano immediatamente lo sguardo anche di chi non è abituato a un certo tipo di impostazione grafico-compositiva (con Escher poi non si sbaglia mai). «Squid Game» è accattivante, colorato, strano e inquietante quanto basta, violento senza essere splatter, cinico, cattivo e disturbante senza mai davvero mettere in discussione le regole non scritte del sobrio racconto seriale. Perfetto insomma per il target Netflix e per la stimolazione a corto raggio. Niente a che vedere con film come «Battle Royale» del giapponese Kinji Fukasaku, modello inevitabile quando si parla di giochi al massacro che ha tutta un’altra carica eversiva. Diciamo che «Squid Game» assomiglia più a una versione hardcore di «Takeshi’s Castle», il «Mai dire Banzai» figlio del genio di Takeshi Kitano che in Italia divenne un fenomeno pop grazie (anche) alla Gialappa’s: 456 concorrenti, sei prove da affrontare e quando si cade o si sbaglia una pallottola in testa al posto degli sberleffi di Pokoto Pokoto, Lippo Lippi e Cippa Lippa. In palio la possibilità di diventare miliardari e di uscire dal pantano di una vita fatta di miserie, debiti e meschinità. L’idea di partenza del regista-sceneggiatore Hwang Dong-hyuk è stata visitata e rimasticata in più occasioni non solo a Oriente («Il signore delle mosche» e dintorni) ma dimostra di avere una presa ancora salda sulle grandi platee. Dalla Corea del Sud alla conquista del mondo il passo è più breve di quel che sembra.•. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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