«Baggio fantastico:
una fortuna
giocare con lui»

Giuseppe Pasini, il critico d’arte Davide Dotti e Alessandro Del Piero FOTOLIVE /Alessio Guitti
Giuseppe Pasini, il critico d’arte Davide Dotti e Alessandro Del Piero FOTOLIVE /Alessio Guitti
Giuseppe Pasini, il critico d’arte Davide Dotti e Alessandro Del Piero FOTOLIVE /Alessio Guitti
Giuseppe Pasini, il critico d’arte Davide Dotti e Alessandro Del Piero FOTOLIVE /Alessio Guitti

Alessandro Del Piero a Brescia non si vedeva dal 10 novembre 2010, a 24 ore dal suo 36° compleanno; 1-1 il risultato, Quagliarella e Diamanti i marcatori. A riportarlo in città, 7 anni dopo quel pareggio, è la Saef di via Borgosatollo, azienda che si occupa di finanza agevolata, corsi di formazione e sicurezza. Lo scenario non è più il Rigamonti ma la Camera di Commercio. A vibrare non sono più i piedi ma le corde vocali. Del Piero, sul palco insieme al presidente dell’Associazione Industriale Bresciana e della Feralpi Salò Giuseppe Pasini, risponde alle domande del critico d’arte Davide Dotti e spazia su tutto nel segno del tema portante di #passioneimpresa, l’iniziativa di Saef: la bellezza. Del Piero, dove inizia la sua avventura nel calcio? A San Vendemiano, dove sono cresciuto e dove vive ancora mia madre. Lì è cominciato il sogno di un bambino che giocava a calcio dietro casa, rompeva i vasi delle piante e passava il tempo pensando quasi unicamente al pallone. Solo talento o anche passione? Tanta, tantissima passione. Ma cos’è per lei la passione? È quello che ti permette di diventare un calciatore senza pensare che sia un lavoro. È ciò che libera la tua mente, ti permette di realizzare i tuoi sogni e raggiungere la felicità interiore. Provi a definire la felicità interiore... Quando l’impegno richiesto è alto e i picchi di stress potrebbero essere insostenibili, devi trovare serenità dentro di te. È ciò che mi contraddistingue come uomo e calciatore. E la famiglia? Anche quella concorre alla sua felicità? Assolutamente! L’amore dei miei genitori è stato fondamentale in un momento particolare della mia vita. A 13 anni ho dovuto lasciare San Vendemiano per trasferirmi nelle giovanili del Padova. Ero sempre solo e aspettavo la sera per chiamare i miei dalle cabine a gettoni. Altri tempi... E altro modo di vivere. Per noi in viaggio di 77 chilometri fino a Padova era un tragitto non indifferente. Nel libro che ha scritto recentemente, “Detto tra noi”, lei sostiene che la calma sia un valore. Cosa intende? Viviamo in un mondo frenetico, io per primo cerco di andare sempre di fretta per accontentare i miei desideri e quelli delle persone che sono vicine a te. In questo caos, però, è importante sapersi ritagliare del tempo per riflettere e godersi qualche attimo di calma. Se ne sente proprio il bisogno. È una necessità che sentiva anche da giocatore? Quando è arrivato il periodo di calma non è stato per necessità ma per obbligo. Era il 1998 e mi ero appena infortunato al ginocchio. Così ho vissuto un lungo distacco dal mio mondo. Un periodo di dolore? Di grande dolore. Più fisico o più mentale? Entrambi. È stato un infortunio tremendo, molto più complicato di un semplice crociato. A livello fisico ho subito il dolore della riabilitazione. A livello mentale la sofferenza per non poter essere in campo a lottare con i miei compagni. E la calma? È arrivata in quei mesi. Non sono sceso in campo per un anno intero, costretto a un periodo di riflessione forzata che mi ha fatto bene. In che senso? Venivo da 5 anni frenetici, pieni di impegni tra coppe, campionati e partite con la nazionale. Ogni giorno era scandito da un allenamento o una partita. L’infortunio mi ha permesso di fermarmi e riflettere su me stesso. Il Del Piero tornato in campo dopo un anno era migliore? Era diverso. E le pressioni esterne? Come ha saputo affrontarle nel corso della sua carriera? Non lo so. Veramente? Sì! Non ho affrontato una scuola per questo. Tutto nella mia vita è accaduto in modo veloce. A 19 anni ho vinto lo Scudetto, a 20 la Champions, a 21 l’Intercontinentale. È diventato tutto molto grande in breve tempo, mi ci sono trovato immerso. Di certo ho commesso errori ma ho anche cercato di imparare da loro. Lo sport è questo. Ti dà una lezione di vita al giorno. Anche la Serie B lo è stata? Cosa? Una lezione di vita? È stato un orgoglio. Ero capitano e pensavo che meritassimo altro. Il mio legame con la squadra era partito da lontano, sono juventino da sempre e ho sentito che fosse giusto restare. Tante circostanze mi hanno chiamato a rispondere presente alla sfida per iniziare un percorso che ci riportasse dove eravamo rimasti. Dove eravate rimasti? Allo Scudetto vinto nel 2006. E dove siete arrivati? Allo Scudetto vinto nel 2012. Uno Scudetto perso per un soffio è stato quello del Duemila, a Perugia. In quella partita vi fu un episodio curioso con Gianluca Pessotto come protagonista. Ricorda? Eccome. Nei minuti finali, sotto di un gol, l’arbitro inventò una rimessa laterale per noi. Lui disse che la palla spettava agli avversari e fece cambiare la decisione. L’ho scritto nel mio libro e ho voluto farlo per rendere omaggio a un giocatore che ha insegnato a tutti il significato della lealtà. La notte del Bernabeu, invece? Una grande emozione, qualcosa di personale e profondamente diverso rispetto a tutto ciò che la carriera può regalarti in termini di soddisfazioni. Il pubblico si è alzato ad applaudirmi. Mi è arrivato dritto al cuore, ha toccato corde che i trofei normalmente non toccano. Ci descriverebbe un gol alla Del Piero? Si prende la palla defilati, si rientra e si cerca l’angolo lontano. Ovviamente bisogna centrarlo e battere il portiere perché si possa parlare di gol. Non esiste un gol alla Baggio. Che ne pensa di lui? Tecnicamente era fantastico, ma lo è stato anche fisicamente. Era strapotente, aveva una capacità di controllo in velocità sensazionale. Ed era un giocatore di una genuinità unica. Ho avuto la fortuna di giocarci insieme. Come la accolse? Benissimo. Io ero un diciottenne, lui il Baggio di Usa ’94. Si rivolgeva a me in dialetto: lui vicentino, io trevigiano ci capivamo molto bene. E in allenamento mi fermavo a guardarlo calciare le punizioni sperando di poter fare qualche tiro anche io. E il suo rapporto con la natura? Splendido. Da bambino, dopo le estenuanti gare nel campo dietro casa, mi sdraiavo sul prato a guardare il cielo e immaginavo il mio futuro da calciatore. Un gesto che ho ripetuto in un momento importante della mia vita. Sapete quando? Lo dica lei. A Berlino, dopo aver vinto il Mondiale. Mi sono steso e ho guardato nuovamente il cielo per riconciliarmi con il bambino che ero stato. A proposito, che ha pensato prima di calciare il rigore? Ho pensato: ci sono solo 2 miliardi di persone collegate, è una vita che lo aspetti, vai e fai ciò che sai. A proposito di bellezza, la Juventus. Che significa esserne stato il capitano? Un onore e una responsabilità. Il segreto della Juventus è che in bianconero sai chi sei, dove, quando e perché vuoi una cosa. E in campo eravamo tutti fratelli. Per questo abbiamo vinto tutto.

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