Gli inizi, il successo e poi il ritiro: genesi di un’icona senza tempo
Luca Canini L’anno è il 1972. Domenica 23 aprile. Non una sera qualunque per la storia della musica (leggera?) e della televisione italiana. Mina e Battisti, il duetto dei duetti. Finalmente e per la prima volta insieme dentro il piccolo schermo: ospite lui di «Teatro 10», la trasmissione del primo canale che lei conduceva con Alberto Lupo (ricordate «Parole parole»? Ecco, quella). Bastano nove minuti scarsi al più grande e alla più grande per chiudere un’epoca. «TU DI SOLITO canti le tue canzoni, cioè canti soltanto quelle proprio. Io molto spesso canto le tue canzoni: cosa dici, per una volta le cantiamo insieme queste canzoni?», rompe il ghiaccio Mina svettando dal suo quasi metro e ottanta. «Sarei anche d’accordo», risponde il timido Lucio tentando di bucare l’evidente imbarazzo. «Insieme», «Mi ritorni in mente», «Il tempo di morire», «E penso a te», «Io e te da soli», «Eppur mi son scordato di te», una versione da brividi di «Emozioni»: i pezzi scelti filano via tra gli applausi scroscianti del Teatro delle Vittorie e l’Italia del boom, degli urlatori, dei falò sulla spiaggia, dei jukebox e dei musicarelli, cede il passo definitivamente al Paese delle stragi e delle bombe, della crisi petrolifera e della contestazione, dei festival del proletariato e delle fanzine. Non è un caso che da quel 23 aprile del 1972, seguendo il filo logico di ragionamenti artistici molto diversi, Mina e Battisti sarebbero arrivati entrambi alla drastica conclusione di farla finita con la televisione e con i concerti, optando per quella singolare forma di presenza-assenza che avrebbe scandito la seconda parte delle loro carriere. UNA CARRIERA, quella di Mina Anna Maria Mazzini, iniziata alla fine degli anni Cinquanta sui palchi scalcagnati delle balere di provincia, ai tempi delle canzonette e del rock’n’roll di casa nostra; ed esplosa trionfalmente nel 1960 con «Tintarella di luna», il primo singolo volato in vetta alla classifica dopo le prove generali di qualche mese prima con «Nessuno». È l’inizio di un crescendo travolgente. Le comparsate in televisione, i due passaggi sanremesi (nel ’60 e soprattutto nel ’61 con «Le mille bolle blu», che finisce dritta dritta nell’immaginario collettivo anche per quel gesto delle mani sulla bocca che accompagna il ritornello), il cinema, i singoli sfornati in quantità industriale («Una zebra a pois» e «Il cielo in una stanza», tanto per citarne un paio), le trionfali tournée all’estero (l’immensa discografia della signora Mazzini è piena di brani cantati in tedesco, in spagnolo, in francese e persino in giapponese), le prime pagine dei rotocalchi, l’asfissiante attenzione della stampa: il ciclone Mina travolge tutto e tutti, cambiando per sempre le regole del gioco. Anche se il prezzo da pagare è alto. Il primo figlio avuto nel ’63 da Corrado Pani, all’epoca formalmente sposato, le costa la disapprovazione di chi tira i fili in Rai e una salva di feroci attacchi. POCO MALE. Il pubblico la adora. E nel ’65, quando viene scelta per condurre «Studio Uno», è la definitiva consacrazione. I duetti con Alberto Sordi, Walter Chiari, Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman e Totò, e i brani lanciati via etere come «Se telefonando» (scritta da Maurizio Costanzo e Ghigo De Chiara su musiche di Ennio Morricone) sono il lasciapassare per l’ascesa al rango di icona assoluta. Della musica e del costume. I capelli corti, gli occhi grandi e penetranti, i movimenti delle mani ad accompagnare il canto, la sensualità esibita senza vergogna, gli abiti e le scollature (fu la prima a portare la minigonna in televisione): l’Italia in cerca di un’ipotesi di modernità ha qualcuno a cui guardare. Fino al ’74, e a quel «Milleluci» condotto con Raffaella Carrà che è il preludio al ritiro della divina. Il brano che chiude il programma? «Non gioco più». Una dichiarazione d’intenti fissata sul pentagramma. Di lì a poco sarebbe arrivato anche l’addio ai concerti e sarebbe nata un’altra Mina. Pura voce; voce ovunque. Divoratrice compulsiva di canzoni che non c’è-eppure c’è. Da icona a mito. • © RIPRODUZIONE RISERVATA
Partecipa. Inviaci i tuoi commenti