IL CENTRO

Il Faro, la casa che illumina la vita di mamme e bimbi

di Michela Bono
Una struttura dell’Istituto Palazzolo di via Fratelli Bronzetti in città gestito dalle suore delle Poverelle
Mamme e bimbi possono ritrovarsi e stare  bene insiemeAll’istituto Palazzolo c’è un «Faro» che brilla e offre una luce di speranza alle donne sole
Mamme e bimbi possono ritrovarsi e stare bene insiemeAll’istituto Palazzolo c’è un «Faro» che brilla e offre una luce di speranza alle donne sole
Mamme e bimbi possono ritrovarsi e stare  bene insiemeAll’istituto Palazzolo c’è un «Faro» che brilla e offre una luce di speranza alle donne sole
Mamme e bimbi possono ritrovarsi e stare bene insiemeAll’istituto Palazzolo c’è un «Faro» che brilla e offre una luce di speranza alle donne sole

Nel nome un destino: si chiama Il Faro perché è come una luce quando si entra in porto da un mare agitato e minaccioso. È la comunità dell’Istituto Palazzolo di via Fratelli Bronzetti gestito dalle Suore delle Poverelle. Ospita donne sole con figli quando i servizi sociali o l’autorità giudiziaria ritengono che una madre non sia nelle condizioni di prendersi cura dei propri bambini e, prima di separarli, le danno la possibilità di riacquisire le competenze genitoriali. Viene considerato un pronto intervento perché di solito mamma e bimbi vi approdano quando si ravvisa l’urgenza di un provvedimento immediato. Il Faro è una grande casa con sei stanze, ognuna con il proprio bagno. C’è una bella sala con cucina in comune, una lavanderia e un magazzino. Essendoci sempre molti piccolini, nell’appartamento c’è anche una sala giochi attrezzata per trascorrere il tempo libero in serenità. In questa casa, le mamme hanno l’opportunità di fermarsi e riprendere in mano le redini della propria vita. Hanno a disposizione 4 educatrici e un assistente 24 ore su 24, che non solo hanno il compito di monitorarle nel rapporto con i figli, ma anche di guidarle e rieducarle al loro ruolo di accudimento. Suor Marina Ghilardi, la superiora dell’Istituto, è per tutti una guida, una madre amorevole, un’amica fidata. Perché al Faro nessuno giudica, nessuno punisce. «Desideriamo solo che ogni mamma possa ritrovare la spinta a fare la madre, a valorizzarsi come donna ed essere umano – spiega la religiosa -. Tutti possiamo sbagliare, ma qui viene data una seconda occasione». Una possibilità che va colta non solo per evitare che il tribunale prenda decisioni da cui non si può tornare indietro, ma anche per ripartire con una maggiore consapevolezza sulle scelte da fare per la propria vita, se la si vuole condurre e non subire. Qui le mamme possono riscattarsi prima che la situazione degeneri. Lo stesso vale per il padre, che sempre in collaborazione con i servizi sociali e l’autorità giudiziaria, si impegna in un percorso per dimostrare a sua volta di raggiungere determinati obiettivi, senza i quali la patria potestà può essere messa in discussione. Contrariamente alle case rifugio, in cui le donne vengono protette da situazioni di violenza ormai degenerata, qui si intravedono ancora delle risorse positive e si cerca di potenziarle. Il rapporto col compagno è considerato un nodo essenziale per la ricostruzione della genitorialità, quindi a entrambi si chiede si rimettersi in gioco e dimostrare di volercela fare. Proprio perché si tratta di un progetto, al Faro le mamme possono rimanere fino a un massimo di tre anni. In questo periodo vivono in una situazione protetta, dentro la quale contano sull’appoggio di tante figure professionali: educatrici, psicologhe, psicoterapeute, assistenti sociali, avvocati, medici. Ma ciò che più conta è il lato umano delle persone: le suore, così come tutto il personale, sono a disposizione per confrontarsi, sempre tenendo ben presente che l’aiuto non deve mai scadere nell’assistenzialismo perché prima o poi dovranno tornare fuori e ricominciare a vivere per conto loro. Qui ricompongono le fondamenta della loro esistenza, fatta di routine quotidiana, regole di convivenza civile, relazioni rispettose, un lavoro e figli da accudire. «Abbiamo avuto ospiti che hanno dovuto imparare le regole base dell’igiene, della cura personale, abituate a vivere in condizioni di povertà economica, culturale e relazionale assoluta – spiega suor Marina -. Devono imparare a gestirsi i tempi, il denaro, a trovarsi un lavoro e a tenerselo». Le educatrici le osservano e cercano di indirizzarle per ritrovare tutte le potenzialità che magari non sanno nemmeno di avere. «Spesso sono donne senza autostima, svilite, vittime di rapporti disfunzionali e malsani, con profonde ferite dentro, che vanno sanate» spiega ancora la superiora. Al Faro sono protette e sostenute. La mattina dalle 9 alle 12 vengono coinvolte nei laboratori occupazionali: «Riceviamo da ditte esterne piccoli lavori di assemblaggio, per i quali ci pagano qualche centesimo a pezzo – spiega suor Marina -. Alle mamme riusciamo così a dare delle tessere prepagate alla fine di ogni mese». Un impegno importante perché consente alle educatrici di osservare le donne per stendere il curriculum, utile a un futuro lavoro fuori dalla struttura. «Aderiamo al Progetto fare Rete, a cui afferiscono una decina di aziende di pulizie, lavanderie e ristorazione – aggiunge la sorella -: attenzione, precisione, rispetto degli orari e delle dinamiche relazionali sono i fattori oggetto di osservazione». Nel frattempo le suore mettono a disposizione il baby parking dalle 7.30 alle 18.30 con una educatrice e quattro suore che si alternano. A pranzo le ospiti mangiano in casa ciò che prepara la mensa della struttura, mentre a cena cucinano a turno organizzando anche la spesa. «Un bel modo per far assaggiare le ricette dei propri paesi d’origine e condividerle» continua suor Marina. Le signore si preparano la tavola, lavano i piatti, rassettano, sempre a turno. Ognuna si fa il proprio bucato un giorno alla settimana. Se i figli frequentano la scuola vanno a prenderli e si occupano delle loro attività, come fa ogni mamma. «Quando escono da qui dovranno arrangiarsi – conclude Marina -, ma il legame con noi rimarrà sempre». •.

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