LA RUSSIA DEI RANDAGI

di Franco Bottacini
La copertina del libro dello psicologo Luciano Mecacci
La copertina del libro dello psicologo Luciano Mecacci
La copertina del libro dello psicologo Luciano Mecacci
La copertina del libro dello psicologo Luciano Mecacci

Tra gli orrori di cui la storia del Novecento è stata prodiga, pochi sono paragonabili alla condizione dei «besprizornye», come venivano chiamati nella Russia post-rivoluzionaria gli innumerevoli bambini e ragazzini rimasti orfani o privi di famiglia in seguito alla guerra, alla lotta civile o alla carestia. Stimati tra i sei e i sette milioni nel 1922, sporchi, malati e pieni di pidocchi, vestiti di cenci, vagavano da soli o in gruppi per le strade delle città e per le campagne, emarginati e cacciati come cani. E come cani randagi si riunivano in branchi. Vivevano di espedienti, borseggi e ruberie; mendicavano lamentosi un copeco; si stordivano di vodka, sniffavano cocaina (che arrivava dalla Germania), tabacco e hashish; morivano di stenti, di fame e di freddo per le strade. Luciano Mecacci, psicologo di provata perizia, ha cercato per molto tempo di approfondire questa sconcertante tematica. Durante un periodo di studi a Mosca tra il 1972 e il 1978, si rese conto che appena accennava ai bambini perduti «il discorso veniva subito sviato». Tuttavia questo tabù non ha impedito allo studioso di continuare a studiare e raccogliere materiale sulle vicende dei «besprizornye», fino alla pubblicazione di un importante lavoro, «Besprizornye - Bambini randagi nella Russia sovietica (1917-1935)», edito da Adelphi (pp. 274, 22 euro). Le storie dei «besprizornye» sono raccontate da Mecacci con metodo e rigore scientifico, servendosi di scritti, documenti, analisi, statistiche e testimonianze, le più toccanti quelle degli stessi derelitti. Qualcuno di questi non ha ricordi dei genitori, non conosce il proprio nome, non sa dove e quando è nato e perché si trova in questa condizione di estremo abbandono e degrado. Sono una ciurmaglia di piccoli animali affamati, rapaci, senza casa e senza punti di riferimento, senza alcuna educazione. Nessuno ha mai trasmesso loro il concetto di onestà o di etica. Sono capaci e disposti a tutto: rubare, rapinare, uccidere, in una escalation di aggressività e violenza che arriva fino al cannibalismo, pur di sopravvivere. Dormono in fogne o edifici abbandonati, sempre in movimento da un covo all’altro, impegnati in scorribande e razzie, dormono negli scantinati delle stazioni, negli edifici abbandonati o nei cassonetti, viaggiano nascosti sotto i vagoni, sempre braccati ma a loro volta temuti dalla gente sulla quale si avventano come avvoltoi. Le autorità sovietiche, non senza imbarazzo, cercarono più volte di affrontare il fenomeno dei bambini randagi - passando da progetti educativi a misure repressive fino al carcere e alla fucilazione - senza mai trovare una efficace soluzione sociale, giudiziaria, psicologica, rieducativa alla grave piaga. Gli stessi centri di accoglienza e orfanotrofi, sorta di lager dove i bambini randagi vengono costretti in condizioni spaventosamente disumane, si dimostrano strutture inadeguate e allo Stato non resta che imporre la censura sullo scabroso tema per non ammettere il proprio fallimento. Il fenomeno dei «besprizornye» continuò ad allarmare e turbare le coscienze, finché quell’ondata di reietti non diventò adulta; qualcuno venne adottato dalle famiglie, pochi si integrarono nella società, la più parte, ormai irrimediabilmente abituata alla vita selvatica, si sottrasse a ogni tentativo di inserimento e continuò la sua vita allo sbando. In molti si unirono a gruppi di delinquenti, finendo ammazzati o in galera. Eppure, anche nel desolante deserto di quei figli di nessuno poteva nascere un fiore. Qualche «besprizornyj», grazie alla propria forza d’animo o alla fortuna, riuscì a trovare la strada del riscatto morale e sociale, arrivando all’integrazione e addirittura al successo. Quelle raccolte e documentate da Mecacci sono atroci storie di barbarie e disumanità. Ma di tutto è capace un essere ridotto allo stremo. E sotto ogni forma di emarginazione e degrado si riesce sempre a individuare una responsabilità sociale. A questa conclusione pare condurre lo studio di Mecacci che cita Dostoevskij quando ne «I fratelli Karamazov» scrive: «Prima sfamateli, e poi chiedete loro la virtù!». •

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