La riscoperta
della cucina contro
i cuochi «urlanti»

I corsi di cucina creativa in lingua originale francese «Prêt à Parler»
I corsi di cucina creativa in lingua originale francese «Prêt à Parler»
I corsi di cucina creativa in lingua originale francese «Prêt à Parler»
I corsi di cucina creativa in lingua originale francese «Prêt à Parler»

Il mondo della cucina inizia a stancare qualcuno. Perché? Forse perché è sempre più urlato e lontano dalla realtà. Più che cuochi, e quindi professionisti della cucina, quanti calcano le scene della tv sembrano attori senza buone basi di recitazione. L’aggressività e la competizione regnano sovrane, i contenuti si perdono. Da Masterchef a Cucine da incubo, non c’è più il senso della misura. Un soufflé mal riuscito sembra essere grave quanto un intervento chirurgico che ha danneggiato la salute di un malato. I cuochi, negli ultimi due anni, sono diventate le nuove star, i calciatori, in confronto, erano «bamboccioni» che non facevano troppi danni, per lo meno perché non si improvvisavano filosofi. E tutto questo urlare sembra aver stufato il pubblico: gli spettatori sono ancora tanti, ma il malcontento serpeggia e le critiche aumentano. Si vedono litigi, padelle volare, lotte, ma sempre meno ciò che dovrebbe essere il vero cuore della cucina: un buon piatto. Di quelli che ti fanno venire l’acquolina in bocca, che saziano, completano, nutrono e strappano un sorriso segreto di piacere e soddisfazione. Sembra quasi che aggiungere la liquirizia sulle seppie o la polvere di caffè sul risotto sia la via per diventare i nuovi Gualtiero Marchesi, ma non è così. Come dice il grande Maestro, un bravo cuoco deve prima conoscere le basi, ripetere all’infinito le ricette più semplici e, solo dopo, potrà dedicarsi agli accostamenti più complessi. Per la serie: se non sai fare una cotoletta o un arrosto perfetti, è inutile che ti cimenti con l’aria di Parmigiano. L’alta cucina delude sempre di più, con conti altissimi e piatti decisamente poco consistenti, prima di tutto nelle quantità, e, poi, nell’idea ispiratrice, che difficilmente stupisce o si allontana da un puro gioco di prestigio. Nessuno dice che si debba andare in un ristorante stellato per ingozzarsi, ma almeno non morire di fame quando si spendono conti astronomici non sarebbe male. Va bene che nel conto ci sono tutti i costi di gestione del ristorante - dalla tovaglia bianca all’opera d’arte sul tavolo, dalle materie prime alla brigata - ma qualche grammo di pasta in più non ha mai mandato in rovina nessuno. Fortunatamente, lontano dal piccolo schermo, ci sono realtà pieno di senso e ci sono cuochi che rispettano ancora questo lavoro. E a Brescia - ad oggi fortunatamente fuori dalle pericolose logiche «milanesi» dell’immagine a tutti i costi - siamo messi bene. Penso ad esempio a realtà silenziose, che non hanno mai voluto salire agli onori della cronaca, ma che si sono fatte strada seguendo (per davvero) il mantra dell’amore per il territorio e del rispetto per gli ingredienti. Il primo nome che mi viene in mente è la «Madia» di Brione di Michele Valotti che, finalmente e con grande ritardo, quest’anno è stata inserita nella guida Michelin come ristorante Bib Gourmand, cioè tra quelli con il miglior rapporto qualità prezzo. Qui il 90 per cento delle materie prime utilizzate per la preparazione del menù proviene da piccoli produttori del territorio, e anche le poche materie prime extraterritoriali vengono da piccoli produttori artigianali. È lodevole anche come Valotti si confronta con la cucina di carne, così parte della nostra tradizione. Gli animali, si legge sul menù, hanno vissuto liberi, trattati con dignità, nati e cresciuti presso piccoli allevatori. «Animali che hanno avuto una vita dignitosa e tranquilla – dice Valotti -. Se l’industrializzazione del cibo è di per sé un fatto grave, quando coinvolge gli animali è disastroso, prodotti come sono in “catena di montaggio”. Spersonalizzare la carne nei banchi di un supermercato aiuta a venderne di più. Ma non aiuta certo la vita di questi animali stipati in allevamenti intensivi». Un altro esempio che mi fa ben sperare, verso un futuro di una cucina più vera, meno urlata e invadente, è un’esperienza che ho vissuto a Milano e che sarebbe bello potesse approdare anche nella nostra città. Una bravissima insegnante di lingue francese, di nome Géraldine Macé, si è inventata Prêt à Parler, corsi di cucina creativa in lingua «originale». Ci si trova in una cucina dall’atmosfera informale e familiare e, tra burro e farina e, insieme a un cuoco parigino, si preparano croissant o salse dolci e salate, mentre il maestro spiega il tutto in francese. Un modo divertente per imparare una lingua e conoscere persone piacevoli, passando una serata diversa, cucinando e bevendo insieme un bicchiere di vino. Mentre impastavo i croissant e rispolveravo il mio francese anchilosato, ho ritrovato il senso vero della cucina: persone felici, innamorate degli ingredienti, che vogliono cucinare prima di tutto per stare insieme o per fare felice qualcuno a casa. E allora cosa fare? Ripartire dalle ricette, da ciò che viene davvero messo in tavola, sia quando si parla di alta cucina che di piatti per tutti i giorni, prestando meno attenzione alla figura del cuoco. Perché un cuoco può essere anche bello, figo e interessante, ma se cucina male non ha senso che venga chiamato con questo nome.

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