Alberto Belgesto

di Gian Paolo Laffranchi
Alberto Belgesto:  cantautore, polistrumentista, direttore artistico, organizzatore di eventi  FOTO ROBERTO CAVALLI
Alberto Belgesto: cantautore, polistrumentista, direttore artistico, organizzatore di eventi FOTO ROBERTO CAVALLI
Alberto Belgesto:  cantautore, polistrumentista, direttore artistico, organizzatore di eventi  FOTO ROBERTO CAVALLI
Alberto Belgesto: cantautore, polistrumentista, direttore artistico, organizzatore di eventi FOTO ROBERTO CAVALLI

Belgesto da più di vent’anni. Belgesto dacché la musica per lui è una cosa seria. Belgesto perfetto one-man-band. Raramente un nome d’arte ha riassunto meglio un percorso artistico. Belgesto, al secolo Alberto Fertonani: in ordine di tempo polistrumentista, cantautore, direttore artistico, promoter. Organizza con spirito squisitamente creativo, crea con l’idea di un evento da strutturare. Così ha contribuito a plasmare una scena bresciana che non solo qui, ma in tutta Italia, è considerata un fiore all’occhiello del panorama indipendente.

It-pop prima dell’it-pop, co-fondatore della Latteria Molloy: il suo primo club?
Casa mia. In famiglia c’era sempre tanto da ascoltare, la discografia completa di rock e cantautori, dal jazz al pop. E due zii che insegnano musica... A zio Luigi devo tanto: fu lui a insistere perché io frequentassi la scuola Gioietta Paoli, in vicolo dell’Anguilla, allievo del maestro Ligasacchi.

Un’adolescenza di studi.
Dopo le medie alla Foscolo frequentavo il liceo scientifico Calini e nel frattempo suonavo sempre: ho iniziato con il clarinetto, nella banda, in un secondo momento mi sono dedicato al sassofono.

La prima cassetta?
Da mio zio Paolo: era «True» degli Spandau Ballet. Avevo 9 anni. Poi furono gli Wham di «Wake me up...». Ricordo che stavo ascoltando «Mixage», una compilation, quando mio padre mi prese parte e mi disse
Ascolta, questa è musica.
Era «Hot stuff» dei Rolling Stones.

La folgorazione?
«Vado al massimo». Vasco Rossi mi colpì, ma mi vergognavo e lo tenevo per me. Poi uscì «Vita spericolata» e mia sorella disse
È la mia canzone preferita.
A quel punto era sdoganato e i miei fratelli iniziarono ad ascoltare anche i dischi precedenti. Quante cassette duplicate dagli amici dell’oratorio, fino a «Bollicine». L’ascoltavamo in auto, in vacanza. Ho cominciato così a cantare.

Prima band?
Stone Martens, verso la fine del liceo. Mi cercarono perché suonavo il sax. Per me suonare alla festa della scuola, dove si esibivano i fratelli Poddighe che erano già mostri sacri, era già un sogno. Poi i miei compagni di gruppo scoprirono che scrivevo canzoni. Le strimpellavo da solo, con la chitarra di mio fratello, di nascosto perché lui non sarebbe stato molto contento...

Quali modelli aveva?
Vasco, naturalmente. E Luca Carboni.

La prima canzone?
All’oratorio di Chiesanuova, per la prima volta, cantai un brano mio: «Vecchia luna». Poi con Andrea Cinelli fondai i Belgesto, per fare canzoni nostre.

Come nacque il nome?
Per gioco. Uno dei componenti della band diceva spesso
Fammi un favore, fa’ un bel gesto
. Suonava bene. Facevamo cover di Vasco, Doors, Pearl Jam. E canzoni che avevo scritto io. Il frontman era Cinelli. Io non mi sentivo vocalmente adatto. Ed ero timido, direi.

A vederla coverizzare Vasco sul palco non si direbbe.
Vero. È l’altra parte di me.

Dopo la band, è diventato one-man-band.
Abbiamo partecipato a concorsi, al festival di San Marino, poi ci siamo un po’ persi, chi all’università, chi facendo altro. Sono rimasto da solo e ho ereditato il nome. Scrivevo tutto il giorno, avevo centinaia di canzoni e passavo parecchio tempo in studio con i Poddighe, due fuoriclasse, Andrea e Carlo che arrangiava meravigliosamente e ha suonato tanto con me. Non credevo di avere l’x factor nella voce, ma i miei riferimenti non erano cantanti virtuosi e avevo un disegno preciso: lavorando in un negozio di dischi avevo studiato tutti i produttori delle etichette, sapevo a chi far ascoltare cosa. Suonai a tanti campanelli e mi aprì la Sony Music. Grazie a Enrico Romano, mio editore e in pratica manager per gran parte della carriera.

Nel 2001 ha pubblicato l’album «Non è successo niente».
Prodotto da Giorgio Baldi per NuN. Sono affezionato a quella collezione di fotografie della mia vita, anche se sono ancora più legato ai brani del disco successivo che non uscì mai. Era cresciuta la consapevolezza, avevo capito che suono mi piaceva avere, come volevo cantare.

La canzone di cui va più fiero?
«Scheletro», pubblicata su YouTube: l’insieme di tante cose mie, la scrittura pop, la leggerezza, l’ironia, il rock.  

Da artista a direttore artistico.
Ho iniziato un lavoro senza neanche sapere che esistesse. Il gruppo di amici con cui lavoravo al museo Santa Giulia ha cominciato a gestire il circolo sportivo di via Maggi, dove gli anziani giocavano a carte al pomeriggio. Andrea Nistolini, mio amico, avviava lì un bar e mi chiese di aiutarlo a organizzare dei concerti. Non avevamo budget. Invitai un altro amico, Jet Set Roger, che accettò con entusiasmo di fare uno show. Spesi 100 euro in sms per promuovere l’evento e grazie al passaparola il successo fu tale che Andrea finì qualunque cosa da bere, perfino il caffè.

Era il 2007: nasceva così la Latteria Molloy.
Ritentai con Dario dei Don Turbolento, altro collega del museo, e fu la prova che l’elettronica poteva funzionare quanto il cantautorato. A Brescia c’era spazio per un locale così: Crediamoci. Nisto scrisse il documento programmatico, un manifesto sofisticato ma anche popolare. Marco Bertoglio disegnò l’elefante. Eravamo indie, alternativi. Ho imparato un po’ alla volta da chi faceva quel lavoro da tempo, Aldino, Ciano, Obertini, ispirandomi a locali come Donne Motori e Freemuzik, Trinity College e Lattepiù. Nel 2009 in Latteria è arrivato Paolo Blodio Fappani, che ha portato una vena musicale più rock: se io potevo invitare Cristicchi, lui portava i Lords of Altamont.

Quindici anni di Latteria, che nel frattempo si è trasferita e ingrandita: da via Maggi a via Ducos.
Nel 2011 si è chiusa l’esperienza dell’associazione culturale: tutti con la stessa passione, avevamo fatto quello che potevamo fare, senza parcheggi, con tanta concorrenza. L’occasione per ripartire arrivò alla Nave di Harlock, avevamo saputo di un progetto lungimirante di Palcogiovani. Però c’erano erba alta 2 metri, vetri rotti, scritte di writer qua e là. Entrare era complicato e costoso, ma nell’aprile 2013 abbiamo riaperto come circolo, non più Uisp ma Arci. Della vecchia Latteria siamo rimasti io e Blodio, in cerca di soci per un’attività commerciale strutturata. È nata la Yollom con Lorenzo Kaufman, Luca Faustini e in un secondo momento Luca Borsetti: il suo arrivo è stato rivoluzionario, nel periodo durissimo della pandemia non si è mai arreso e così ora siamo qui.

Casa Molloy oggi è Latteria e Distilleria, ai concerti si sono aggiunti eventi come presentazioni di libri. Nel 2017, prima del Covid, avete celebrato il decennale con una serata memorabile. Niccolò Fabi ospite, Luca Ferrari dei Verdena con i Giuradei e poi il «local hero» Omar Pedrini, Cristina Donà, Motta, Nikki...
Sicuramente la serata più emozionante, per me. Un traguardo che mai avremmo immaginato di raggiungere, con 1200 persone felici di condividere la nostra gioia. Ho pianto tanto.

Un bagno di folla è sempre il 4/qUARTI, maratona da record dalla prima edizione nel 2012.
Avevamo chiuso da poco l’esperienza in via Maggi, pensavamo a un evento unico al Parco Castelli: quest’anno in Latteria abbiamo festeggiato la dodicesima edizione. Per il 4/quarti è stato decisivo Diego Spagnoli: per me che andavo ai concerti di Vasco lui che era lo stage manager, un mito, aveva lavorato anche con Depeche Mode e Red Hot Chili Peppers. Una sera venne a bere qualcosa alla vecchia Latteria con l’amico comune Andrea Ponzoni e nacque l’idea di organizzare una festa con un po’ di gruppi. Scrissi un messaggio multiplo a 20 band, risposero tutte di sì. Chiamai Diego: Abbiamo un problema, vengono tutti. E che problema c’è?, mi disse lui. Facciamo 40 gruppi, anzi 60! La data era il 4 aprile: per questo lo chiamammo 4/4, 4/qUARTI. Successivamente siamo arrivati a 100 gruppi, a 120, e Diego ha scritto al Guinness dei primati: non esisteva nemmeno un precedente. L’evento è diventato di tutti, patrimonio della città. Abbiamo fatto un po’ la storia: motivo di grande orgoglio.

Il sogno, ora?
Una speranza: che il pubblico torni a riempire i locali per amore della musica, che a Brescia ha messo radici nel tempo. Soprattutto la musica dal vivo, che alla mia generazione ha dato davvero tanto.•.

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