INTERVISTA

Andrea Poddighe

di Gian Paolo Laffranchi
«Sogno che la mia musica vada in giro per il mondo»
Andrea Poddighe: nato il 30 giugno 1975, bresciano, è polistrumentista, compositore, produttore e tecnico. Con il fratello Carlo gestisce il Poddighe Studio
Andrea Poddighe: nato il 30 giugno 1975, bresciano, è polistrumentista, compositore, produttore e tecnico. Con il fratello Carlo gestisce il Poddighe Studio
Andrea Poddighe: nato il 30 giugno 1975, bresciano, è polistrumentista, compositore, produttore e tecnico. Con il fratello Carlo gestisce il Poddighe Studio
Andrea Poddighe: nato il 30 giugno 1975, bresciano, è polistrumentista, compositore, produttore e tecnico. Con il fratello Carlo gestisce il Poddighe Studio

Suonano tutti, in famiglia. Tutti. E di tutto. «Nostro padre Giovanni era bravo con la chitarra. Era un professore di geografia amatissimo dagli allievi, è mancato a 59 anni, ci ha insegnato gli accordi e fatto ascoltare i dischi giusti. Mamma Renata, che pure è stata professoressa di italiano, si dedicava invece al pianoforte classico. Io sono il figlio maggiore e ho iniziato a giocare subito con gli strumenti. Così i miei fratelli. È nel nostro Dna». Benvenuti a casa Poddighe, dove la musica è regina. Andrea, classe 1975, ne ha fatto un mestiere come Carlo, del ’77. Paolo, dell’84, «invece no: è anche capace, portato, ma ha deciso che ne aveva abbastanza di quello che combiniamo noi». Polistrumentisti, i Poddighe. Carlo più da tour, Andrea più tecnico. Insieme hanno dato vita in città a uno studio che è un gioiello: produzioni, registrazioni, live, streaming... Di tutto, appunto. Com’è nella tradizione di due che sono da sempre fuoriclasse.

Quanti strumenti suonate adesso?
Batteria, chitarra, basso, tastiere e pianoforte entrambi. Carlo anche sax e flauto non benissimo, anche se col flauto dolce riesce ad emulare Ian Anderson.

Cosa le piace suonare di più?
Alla fine la chitarra. Anche se suono meglio basso e batteria, soprattutto la batteria. Cantiamo fin dal principio tutti e due.

Come biglietto da visita con la Silver Puddu Band infiammaste il palco di Babilonia, festa studentesca del 1994, spaziando fra Hendrix, Deep Purple e Led Zeppelin.
Ne è passato di tempo... Nostro padre ci ha passato i primi dischi di rock and roll, i classici, Celentano. Lui negli anni ’60 era in una band, i Draculoni. Abbiamo seguito le sue orme. Ho preso qualche lezione di solfeggio da una collega di mia mamma, ma in generale io ho sempre bisogno di un po’ di rock and roll... Senza il rock non so stare.

Se invece di chiamarvi Poddighe vi chiamate McPoddighue e foste nati a Londra o New York?
Dipende anche dal periodo in cui nasci. Certo, per noi ragazzi classe ’70 sarebbe stato comodo: dopo gli ’80 in cui si era suonato poco dal vivo finalmente sono arrivati i Nirvana.

La sua folgorazione?
Allo scientifico, in classe con Gianmarco Martelloni: io avevo le cassette con i Deep Purple, lui mi passò i Pink Floyd.

Con Martelloni avete pure formato una tribute band dei Pink Floyd, gli Embryo.
Eh sì. Gianma era supercontemporaneo, era stato già in Inghilterra e in America, proponeva di suonare i Guns ’n’ Roses quando impazzava «Don’t cry». Un giorno portò «Nevermind»: «Questa roba è nuovissima, cambierà tutto», ci disse. Aveva ragione. Poi cercava «Bleach», il disco precedente. Occorreva andare da Magic Bus per chiederlo d’importazione. Ricordo quando è uscito «In utero» e Gianmarco è venuto col disco a casa mia. Io ero più sui classici, comunque.

Tipo?
Andai a comprare «Steel Wheels» dei Rolling Stones il giorno stesso dell’uscita, nel 1989. E poi i Beatles. La cosa divertente è che ho approfondito i Beatles perché avevo sentito «The sound of silence» come colonna sonora di un videogioco sul Commodore 64 ed ero convinto che fosse un loro pezzo, quindi lo cercavo fra i loro dischi e continuavo a comprarne. Quando ho scoperto che era di Simon & Garfunkel, ero ormai diventato un beatlesiano Doc.

Per la serie: il mondo prima di Shazam. Come suo fratello Carlo, con lui e non solo con lui, ha dato vita a mille band e ancor più progetti. In quali si riconosce di più?
Oltre ai tributi, dico gli 00Talpa: siamo anche tornati a suonare insieme alla Festa della Musica. I Terzo Nome In Spagnolo, in cui suono le tastiere. Durante il lockdown mi sono dato alla composizione. Due anni fa sono stato contattato da Andrea Mussap e mi sono unito ai Derriq, con Davide Borleri. Facciamo folk rock, io penso alla batteria e in studio anche alla chitarra. L’energia della band è pazzesca. Il prossimo ep uscirà nel 2022.

E poi ci sono gli EriKs Wine: ha unito le forze con Luca Genoma e Kevin Magliolo per un progetto che s’ispira a pop e dance attuali, alle sonorità rock anni '80 e ai videogames arcade. Con risultati coinvolgenti fin dai primi demo.
Entro il prossimo mese uscirà l’ep. Avremo ospiti come Jury Magliolo, Cek Franceschetti, Ilaria Mattia che canta in tutti i brani, Daniele Ardenghi e poi Alessandro Balotta, che è una vecchia conoscenza come Pietro Maria Tisi. Carlo, mio fratello, ci ha dato una mano qua e là.

Andrea Poddighe si sente più compositore, strumentista, produttore, tecnico?
Ho sempre fatto volentieri il tecnico, ne vedo anche il lato artistico, romantico. Prendersi cura di una creazione. Abbiamo il nostro studio da sempre, quando abbiamo cominciato a registrare c’era ancora il Muro di Berlino. Suonammo una «Another brick in the wall» con il testo a caso, ché non c’era mica Internet. «Mi piace», disse Martelloni. Quindi andava bene. A me piace variare, comunque. Ho collaborato con Centoercentoteatro per «La vita nuova» di Dante Alighieri: uno spettacolo teatrale nato da un’idea di Chiara Cervati, mia moglie, che cura anche la regìa, e da Antonio Panice che è in scena con Monica Vitali. Il tour sta andando avanti. Poi faccio il programmatore di computer e collaboro con Rete Radio Azzurra, che è ripartita da settembre nel nome dell’afro e del funky. Collaboro con Fulvio Di Raddo da una vita occupandomi di siti e applicazioni, per l’emittente ora svolgo un lavoro tecnico artistico curando la programmazione delle dirette. La risposta è stata eccezionale: già 13 mila iscritti su Facebook. E consensi anche su Twitch.

La canzone che vorrebbe aver scritto?
«Uptown» di Prince. Un po’ stonesiana.

La band dei suoi sogni?
Alla batteria John Bonham, all’Hammond Jon Lord. Al basso Glenn Hughes. Prince chitarra e voce. Io chitarre, voci e controvoci.

La band made in Italy, invece?
Franz Di Cioccio batteria e voce, Ares Tavolazzi al basso, Maurizio Solieri e Alberto Camerini alle chitarre, Stefano Cerri al basso.

Cos’ha voglia di suonare di più? Rock e?
Electro. Funk. Spaziando parecchio.

Prince, insomma.
Appunto.

Ha suonato con tutti, a Brescia. Esiste una scena, qui?
Esiste perché ci si conosce e si suona insieme. C’è un po’ di frammentazione, ultimamente, a livello di band. Ma la qualità dei musicisti è salita.

Cos’è la musica?
È un'emozione, una sensazione. La vita. Con la musica ti senti vivo. Mi piace tanto registrarla, è come darle una forma.

Musica a parte?
Amo il cinema. Fantascienza, horror. Sono andato a Milano per vedere su uno schermo di 30 metri la riedizione di «2001 Odissea nello spazio», un’opera d’arte, il mio film preferito. Poi adoro i videogames, gli arcade. Siamo figli di Pacman, Bubble Bubble e Street Fighter.

Cosa sogna di fare?
Quando registro un pezzo di Mirko Dettori e viene premiato per il miglior suono, oppure mixiamo «Che ci vado a fare a Londra?» di Omar Pedrini e il pezzo spacca, sono felice e mi sento realizzato. Sono più portato per il lato produttivo che per essere un frontman. Come Nick Mason nei Pink Floyd, preferisco mettere in circolo idee. Sogno che la musica che creo o di cui mi prendo cura possa girare il mondo.

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