INTERVISTA

Arcari-Tognazzi«Amici fraterni con Brescia nel destino»

di Gian Paolo Laffranchi
«La nostra grande amicizia nata la sera di Santo Stefano con Brescia nel destino»
Gianmarco Tognazzi e Michele Arcari: un legame ultradecennale, nato dal viaggio a Velletri compiuto dall'allora portiere del Brescia e dai suoi amici in pellegrinaggio nei luoghi che furono di Ugo Tognazzi
Gianmarco Tognazzi e Michele Arcari: un legame ultradecennale, nato dal viaggio a Velletri compiuto dall'allora portiere del Brescia e dai suoi amici in pellegrinaggio nei luoghi che furono di Ugo Tognazzi
Gianmarco Tognazzi e Michele Arcari: un legame ultradecennale, nato dal viaggio a Velletri compiuto dall'allora portiere del Brescia e dai suoi amici in pellegrinaggio nei luoghi che furono di Ugo Tognazzi
Gianmarco Tognazzi e Michele Arcari: un legame ultradecennale, nato dal viaggio a Velletri compiuto dall'allora portiere del Brescia e dai suoi amici in pellegrinaggio nei luoghi che furono di Ugo Tognazzi

Tu chiamale, se vuoi, coincidenze. Ma anche emozioni. Cosa accomuna un attore romano e un ex portiere cremonese? «Brescia». Chiaro no? Ma così è.Gianmarco Tognazzi e Michele Arcari, in queste pagine sorridenti uno accanto all'altro, sono diventati così amici da definirsi «fratelli». Si sono regalati questo legame lontano da rotte prevedibili: a Velletri, dopo la sera di Santo Stefano. «Era il mio addio al celibato, nel 2007 - ricorda Michele - e con alcuni matti fan di Tognazzi come me ho deciso di trascorrerlo in pellegrinaggio sui luoghi del grande Ugo. Siamo partiti con l'idea di andare a mangiare da Benito al Bosco: Benito Morelli, che è stato suo grande amico. Siamo andati al cimitero, a far visita alla tomba di Ugo, e a quel punto ho chiesto timidamente se fosse possibile vedere la sua casa. Ci sarebbe bastato osservarla da vicino, nient'altro».

Invece Gianmarco aprì la porta a Michele, che per mestiere cercava di non aprirla mai... ed eccoci qua.
G: Ma come facevo a non aprirgliela? Ma ci rendiamo conto: uno per l'addio al celibato può andare dove gli pare, in chissà quale località esotica, e viene a Velletri per rendere omaggio a mio padre? Dovevo conoscerlo, dovevamo diventare amici! Quella porta andava aperta perché è bellissimo che la generazione nata negli anni '70 si appassioni a un cinema che ha potuto scoprire e apprezzare soltanto a posteriori. E andava aperta perché Michele è una persona fantastica.
M: È nata una magnifica amicizia. Una frequentazione che mi onora. Io vivo in mezzo a film, opere, libri, vini griffati Tognazzi. Ancora oggi, quando vedo comparire sul display del cellulare quel cognome per una chiamata o un messaggio di Gianmarco in arrivo, mi emoziono. E sono grato al destino. Alle coincidenze felici.

Brescia: il destino passava da qui?
M: Decisamente. Con questa sono 15 stagioni in biancazzurro e non potrei esserne più orgoglioso. Poteva andare diversamente, in passato qualcosa si era mosso e potevo andare a giocare altrove, ma ho scelto così e non me ne sono mai pentito. Anzi.
G: Michele è amatissimo a Brescia. Lo era già prima di ottenere i grandi risultati che ha meritato. Lui, cremonese, nel cuore dei bresciani: credo ci sia ancora più gusto, no?, quando un derby si trasforma in un senso di appartenenza maturato sul campo. Si fa fatica a lasciare un sentimento del genere. Troppo doloroso, salutare la città che ti ha adottato e che hai scelto anche se in partenza era una squadra rivale, dopo che ne sei diventato un simbolo. Cosa che di per sé rappresenta un grande traguardo. Michele aveva occasioni, io lo so, anche importanti. Ha deciso di rimanere, come portiere e ora da tecnico come responsabile dell'area dei portieri. Questa scelta dà la misura dell'uomo che è, innanzitutto. Al di là del professionista indiscutibile.

Professione recordman, a un certo punto: 907' di imbattibilità nel 2012.
M:
E mi arrivò subito il messaggio di congratulazioni di Gianmarco. Come avvenne dopo le partite più riuscite in Serie A.
G: Dopo la gara con l'Inter a San Siro, una prova incredibile alla Scala del calcio. E dopo un'altra prestazione eccezionale con il Palermo.

Brescia era anche sulla strada della famiglia Tognazzi, a partire da «Il magnifico cornuto»: il film più famoso mai girato nella nostra città.
G: Sicuramente. Uno dei grandi film di quel periodo incredibile per il nostro cinema.

Il volto di Ugo campeggia anche sulla copertina di «Sole spento», la canzone più amata dei Timoria.
G:
Come no! Fui io a regalare quella fotografia a Omar Pedrini, altro mio amico bresciano.
M: Abbiamo avuto modo di trovarci tutti e tre insieme. È stato divertente. Da rifare.

Naturalmente si sarà parlato di calcio. Altra costante nel percorso della famiglia Tognazzi: papà Ugo con il vibrante «Ultimo minuto», Ricky con «Ultrà», Gianmarco nei panni di Luciano Spalletti in «Speravo de morì prima»... Quanto è stato difficile calarsi in panni tanto scomodi?
G:
Ho interpretato il personaggio dal punto di vista di Francesco Totti perché così era raccontato nel suo libro. Non tutti purtroppo l'hanno capito, tanti tifosi si sono arrabbiati, ma io so benissimo che non impersonavo una verità assoluta: se avessi incarnato la chiave di lettura di Spalletti sarebbe uscita un'interpretazione completamente diversa. Il fatto è che ci sono gli eventi, ma anche i punti di vista differenti. È la vita. Anche a te Michele sarà capitata qualche incomprensione con dirigenti, allenatori o compagni in passato, no?
M: Certo. E a seconda del punto di vista sarebbero uscite interpretazioni diverse dello stesso episodio. Ma devo dire che tu, Gianmarco, nella parte di Spalletti sei stato eccezionale. Per la bravura, per la capacità nel trasformarti. Impressionante, come tante altre volte.

I film di Gianmarco preferiti da Michele?
M:
Ce ne sono tanti... Premessa: grazie a questa amicizia io ho sentito l'esigenza di «studiare» il cinema italiano. Parlo del periodo d'oro, quello di Tognazzi e Gassman, di Mastroianni, Manfredi e Sordi. Ho scoperto film incredibili, mi sono appassionato a un'epoca irripetibile apprezzando l'acume di autori come Monicelli, per citare solo il regista di «Amici miei». E con quella mentalità da «Amici miei» decisi di recarmi a Velletri per l'addio al celibato. Poi ho visto e rivisto tanti film di Gianmarco, attore che non scopro certo io. Trovo che spicchi in particolare in «A casa tutti bene» di Gabriele Muccino. Lui più di tanti altri interpreti famosi, da Stefano Accorsi a Pierfrancesco Favino.
G: Per me è stato l'inizio di una nuova fase nella carriera. Poi sono arrivati «Non ci resta che il crimine» e «Ritorno al crimine» con la regìa di Massimiliano Bruno, «Gli uomini d'oro» di Vincenzo Alfieri, la chiamata di Christian De Sica per «Sono solo fantasmi».
M: Dei tuoi film voglio citare anche «Il ministro», assolutamente.

Storia dolente di un imprenditore ridotto sul lastrico.
M:
Dovrebbero vederlo tutti. Lo stra-consiglio. Andai a vederlo a Piacenza con gli amici perché a Cremona non era in cartellone... Poi grazie a Sky hanno potuto vederlo tutti.
G: È stato lanciato nella programmazione televisiva dopo il successo del film con Muccino.

La maglia numero uno di Arcari indosso a Tognazzi fa la sua figura: Gianmarco avrebbe voluto fare il portiere?
G:
L'ho fatto. Da bambino pesavo troppo e non stavo benissimo nella divisa giallo canarino ispirata ad Albertosi... Ma ero portiere, come lo era mio padre Ugo che mi ha trasmesso la passione per il calcio e per il Milan. Ora è portiere anche mio figlio Tommaso Ugo. Anche qua, le coincidenze: negli anni '90 frequentavo il grande Milan di Franco Baresi...

Bresciano di Travagliato...
G:
Sì! E c'erano Maldini, Costacurta e Sebastiano Rossi, portiere di cui sono diventato amico e che andavo a trovare a casa sua. Il portiere dell'edificio in cui abitava Seba si chiamava, indovinate un po', Tognazzi! E Seba a chiedermi se eravamo parenti... Sono nato l'11 ottobre: lo stesso giorno di Daniel, figlio di Paolo Maldini. Ho il Milan dentro e so del gemellaggio con il Brescia. Il calcio per me è prima di tutto stare in porta. Rimasi colpito quando Michele mi disse che mestiere faceva, quella sera di Santo Stefano.
M: Gianmarco mi chiese «che mestiere fai?» solo un bel po' dopo che ci aveva accolto in casa sua, durante la chiacchierata.
G: Facendo conversazione, sì. «Gioco nel Brescia, faccio il portiere», mi disse. Non si era posto così, non aveva usato in alcun modo il suo ruolo per presentarsi: anche questo dà la misura della persona che è.
Dal calcio al cinema, dal campo al palcoscenico, condividete lo stesso concetto di gioco di squadra.
M.
Senz'altro. Ed è qualcosa che ho notato in Gianmarco anche vedendolo recitare a teatro, dove pure è un fuoriclasse. Il teatro per me ha un fascino particolare. Ricordo di aver visto «Guardiana» sul Garda, a Sirmione... Che serata!
G: Sì, il teatro è un'altra forma di esaltazione del gioco di squadra. Purtroppo prima della pandemia è scomparsa la mia metà teatrale: Bruno Armando. Abbiamo fatto ditta per tanto tempo sulle scene, dai piccoli teatri a quelli strapieni. Avverto una grande difficoltà a tornare sul palco senza di lui. L'ho fatto con «Vetri rotti» di Arthur Miller, ma il problema è che non riesco a pensarmi senza di lui a teatro. Lo sento sempre al mio fianco. Edoardo Erba, pure suo amico fraterno, ha pensato di realizzare uno spettacolo su Bruno, sul valore dell'amicizia per la vita, sulla capacità di sorriderne. Qualcosa in cui credo molto.
Il messaggio di «Amici miei».
G: 
Sì. E portare a termine uno spettacolo che emozionerà è il senso del mestiere come lo intendo io. Spero di poter tornare presto a Brescia in tournée. Sono cresciuto con il clima della compagnia, quello che contraddistingueva i tour teatrali di mio padre con Raimondo Vianello. Fare coppia è qualcosa che mi ha trasmesso, l'ho fatto per anni con Alessandro Gassman. È l'atmosfera dello spogliatoio, vero Michele? In fondo noi e voi non siamo troppo diversi. Se pensi al tipo di preparazione anche fisica che richiede, ad esempio, un genere come il musical.
M: Sul palco voi attori per me siete dei fenomeni. Fate cose incredibili. Ed è vero quello che dici sullo spogliatoio, sull'esigenza di fare squadra anche a tavola in ritiro. Qualcosa che ho ritrovato quando sono entrato a casa tua: i valori che ti ha trasmesso tuo papà Ugo, che trasparivano anche dalla sua arte.

A unirvi è anche la passione per i vini?
M:
Gianmarco è un intenditore e un imprenditore, un esperto nel ramo. Io mi limito a essere un appassionato. Ho fatto il corso da sommelier da giovane, mi sono fermato a 2 gradini su 3 del percorso. Certo mi è rimasto l'interesse e ho avuto modo di apprezzare la crescita dei vini di Gianmarco, un'evoluzione continua per fruibilità e freschezza. So che nella casa vecchia hai ricavato un museo, hai piantato viti... Non vedo l'ora di venirti a trovare.
G: E io di accoglierti. La pandemia ci ha costretto a stare distanti a lungo, adesso finalmente speriamo di ricominciare con la vita di sempre.
La Tognazza è l'emblema della filosofia di una famiglia che non conosce compartimenti stagni: coltura e cultura, calcio e cinema, un approccio complessivo alla vita e ai suoi piaceri con i relativi slanci.
G: 
Certo: per me arte è anche stare dietro alla vigna. Il sogno di Ugo, apice del suo Ugocentrismo: cucinare a metro zero, altro che chilometro!, dare forma a una realtà autosufficiente, riunire intorno a una tavola persone care e nutrirle con i prodotti della propria terra.
M: C'è una grande forma di generosità, anche, in tutto questo.
G: Sì, ma paradossalmente la massima generosità coincideva in mio padre anche in una sorta di magnifico egoismo: la cucina diventa una fucina di idee grazie a quel concetto di stare insieme condividendo e ironizzando. Il concetto di convivialità, per me irrinunciabile. Perché non mi si può dire che è la stessa cosa sentirsi o vedersi con uno schermo in mezzo: io amo avere ospiti come l'amava mio padre, stare a tavola dev'essere anche conoscersi e confrontarsi sentendosi liberi di essere se stessi. Gli ospiti a casa Tognazzi sono sempre stati padroni. Mio padre era un uomo completamente libero che detestava stare da solo: queste cose me le ha trasmette Ugoisticamente. Sono cresciuto con quel bellissimo circo in casa.M: Una fortuna, crescere con il grande cinema in cucina.

La sala da pranzo come il tavolo di lavoro?
G:
Assolutamente. E la Tognazza non a caso è anche teatro di eventi: la pandemia ci ha costretto a congelarne una quarantina, per il Covid oltre a Michele non sono potuti venirmi a trovare amici come Pau dei Negrita. Ci rifaremo, quanto prima.
M: Sarà bellissimo ritrovarci, finalmente!
G: La Tognazza ha senso per questo. Per il rapporto con gli amici e con la natura. Ugo aveva fatto orto, serra, pollaio, l'olio, e il vino, coltivava di tutto... Vero precursore del biologico. Io seguo le sue orme. Avevo la passione per il vino e questa mi ha portato a una scelta di vita nel 2006, quando ho sposato Valeria e aspettavamo Andrea Viola, la nostra prima figlia. Sono tornato a Velletri da dov'ero scappato, sfuggendo per reazione al mondo bellissimo che mi invadeva la casa quotidianamente. Papà ci portava il set in casa. Non ci ha mai detto: «Fate gli attori, fate i registi». Ricky, io e Maria Sole abbiamo intrapreso la stessa strada spontaneamente.
M: E sempre con il sorriso.
G: La nostra filosofia, quella della Tognazza, è fare le cose seriamente per poterle condividere poco seriamente.
La chiave di «Amici miei»: il gioco è una cosa seria.
G:
Il cazzeggio è sacro! Alla Tognazza non ci fissiamo sulle degustazioni tecniche, siamo un'altra cosa, fuori dagli schemi.
M: Gli stessi nomi dei vini dicono tanto.
G: Derivano dalla terminologia della Supercazzola, nata alla fine di una cena infinita con Benvenuti, De Bernardi e Monicelli: alle 3 di notte, un po' biascicando, sono nate espressioni come «Tapioco», «Come se fosse», «Antani». Ora sono nostri vini.
M: Tuo papà ne sarebbe orgoglioso. . © RIPRODUZIONE RISERVATA

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