INTERVISTA

Beatrice Sberna

di Gian Paolo Laffranchi
«In Olanda c’è il giusto rispetto per la musica»

Cosa sarebbe l'Italia se investisse sul serio anche nell'arte? Cosa succederebbe se il Belpaese cogliesse davvero come segnali quello che ci sta regalando il 2021 (gli azzurri mai così vincenti alle Olimpiadi, una band che diventa la più ascoltata al mondo facendo rock)? Il problema di fondo può diventare un'opportunità, se lo si affronta e lo risolve. Magari passando dalle scuole, da un cambio di mentalità nella scala di valori che stabilisce le gerarchie fra le materie di studio. Nell'attesa, è assolutamente normale che una giovane fuoriclasse come Beatrice Sberna - voce da brividi per ispirazione e intensità - si trasferisca in Olanda. Un tempo si parlava di fuga di cervelli; oggi è da registrare la necessità di chi vuol far musica di ampliare i propri orizzonti facendo le valigie, partendo e mettendosi in discussione. Non a caso su queste pagine di esempi come il suo se ne sono raccontati diversi: il più recente, Maria Chiossi. Arpista orgoglio bresciano, astro dell'Orchestra Nazionale del Cile, tornerà a suonare nella sua città forte dell'esperienza maturata in giro per il mondo. Percorso indispensabile a spiccare il volo. «Mi sono laureata in canto jazz al Conservatorio Marenzio di Brescia da Amsterdam - racconta la cantante bresciana, nata il 27 luglio 1998 e cresciuta a Rezzato -. Nonostante vicissitudini, trasferimenti, pandemie e grazie al mio talento nell'iniziare le cose in anticipo e finirle in ritardo, ci sono riuscita coronando il tutto nel concerto finale in cui ho fatto un lavoro di raccolta e arrangiamento di brani di musica italiana che mi stanno a cuore. Il legame con le radici rimane, ma emigrare in Olanda è stata la decisione giusta».

Cosa garantisce Amsterdam che in Italia si fatica a trovare?
Come scelta di vita è impegnativa, ma di certo è una svolta. L'impostazione degli studi in Olanda è più efficace, tutto è più fluido e richiede meno passaggi sotto ogni punto di vista. La differenza la fanno essenzialmente l'organizzazione, la chiarezza. Tutto è più pragmatico, si va dritti al punto invece di girare intorno alle cose. È importante uscire dall'Italia per vedere ciò che c'è fuori.

Se pensa a Brescia?
La amo, è la mia città, torno quando posso e ritornerò sempre anche per ragioni musicali oltre che affettive, ma è una piccola realtà: fuori ci sono tante cose che a Brescia non esistono. È utile uscire dai confini per crescere culturalmente e tornare arricchiti.

Cosa non le piace dell'Olanda?
La pioggia, che scende in una quantità incredibile. Il cibo, che non ci azzecca niente con la qualità a cui siamo abituati. E il freddo, fastidioso veramente.

Cosa ama invece?
La mancanza di giudizi da parte delle persone, decisamente. L'apertura mentale, che si riflette sotto tanti aspetti. Una questione di cultura differente.

La musica l'accompagna da quando era in fasce?
I genitori da questo punto di vista non c'entrano, non mi hanno influenzato. C'è in famiglia la leggenda di mio nonno che suonava il trombone e cantava... Di sicuro mio fratello Giovanni suona, il trombone ma anche la chitarra, e insegna storia della musica. Io ho sempre spaziato, dal metal al cantautorato. Tanta musica diversa, tanti generi. Ho iniziato nel coro del paese, poi sono passata al gospel.

Perché la voce si faceva notare dall'inizio, evidentemente.
Ma io ho studiato parecchio, è qualcosa di indispensabile. Mi sono tuffata presto nella classica.

Se non avesse cantato?
Mi sarebbe piaciuto dipingere. Ho frequentato il liceo artistico in città, il Maffeo Olivieri. La scuola dei fricchettoni insomma! Anni belli. Ma la musica chiamava. Ho cantato nei centri sociali in Lombardia, fra gruppi e jam session.

Dal reggae al jazz?
Non direi di essere passata da un genere a un altro, no. Io non mi precludo nulla. Ho cantato in una band, i Below the BassLine, dopodiché ho formato un duo con Gabriele Guerreschi, Niu: facciamo pezzi nostri in italiano, il disco uscirà a breve e ci rappresenta. Mi piace la canzone d'autore che sposa l'improvvisazione alle parole, per me tanto importanti.

Così giovane, fa squadra da tempo con musicisti affermati come Giulio Corini e Sandro Gibellini.
Esperienze stupende, fondamentali. Non è un progetto fisso, il nostro. Ci siamo incontrati, abbiamo suonato ed è stato fantastico, tutto sull'onda di una spontaneità, di un comune sentire. Mi piacerebbe mantenere così questa cosa...

Molto jazz.
Niente di fisso, seguiamo la musica... Un onore per me potermi confrontare con figure così importanti. Entrambi sono grandi artisti.

In questo periodo è a Siena per una serie di seminari, il 13 agosto invece si esibirà alla Baia San Giovanni di Polignano per il Jazz Fest con Eugenio Macchia e gli Scianatico Brothers. Jam session assicurata. L'improvvisazione è il suo punto di partenza o d'arrivo?
È un punto di riferimento, l'ambito in cui vorrei muovermi per raccontare storie. Vorrei comunicare, esprimermi togliendo quel filo di pretenziosità che spesso viene legato a questo genere. A me piace il jazz ironico, che coinvolge le persone. Parlare senza sofisticherie. Ho un'idea inclusiva del jazz, della musica in generale.

Cosa non deve mancare?
L'ironia. Dev'esserci sempre. Mi piace l'ironia nei testi, la cerco e spesso non la trovo.

Esempi?
Gaber, Dalla. Bisogna prendere spunto dai grandi autori di canzoni, tenersi alla larga da un'idea di jazz che mette in soggezione.

Se lei fosse una canzone?
È presto per rispecchiarmi in un solo pezzo: riparliamone fra 20 anni.

E se potesse rinascere nei panni di un'altra artista, invece?
Mi colpisce Giovanna Marini. Sono fissata, direi ossessionata dalla sua musica, dalla sua lezione. Trovo che il suo percorso artistico sia stato sottovalutato, mentre è di grande spessore. Faceva pezzi che sembravano rap, era un'avanguardista. Nessuno ha lavorato sui testi come lei.

Cosa la rapisce, oltre alla musica?
Ho fatto per anni teatro e credo che si noti dal mio modo di cantare. Amo disegnare, dipingere. Non a caso avevo scelto il liceo l'artistico.

Cosa farebbe per cambiare le cose nelle nostre scuole, votandole anche alle arti?
Da noi le arti a scuola sono considerate marginali, ma non è così ovunque nel mondo. Questo mi fa arrabbiare, perché da una considerazione diversa nascerebbe sicuramente un altro spirito critico e si eviterebbero le situazioni desolanti in cui spesso ci si ritrova a suonare in Italia: contesti rovinati, purtroppo, dall'ignoranza di quella parte di pubblico che non ha imparato a rispettare la musica negli anni della scuola dell'obbligo.

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