L'INTERVISTA

Claudia Parzani: «Si vince dopo aver perso Il futuro è nell'inclusione»

di Gian Paolo Laffranchi

Più avanza fendendo luoghi comuni, più si capacita di quanto conti non sentirsi soli. Più si convince del valore dei limiti d’ognuno di noi, più riesce a varcare confini impensabili. Claudia Parzani, bresciana e franciacortina, prima presidente donna di Borsa Italiana: uno dei tanti tabù sfatati lungo un percorso che non ha eguali (non solo nel Belpaese). Un cammino di cui svela i punti-chiave in «Si vince solo insieme. Undici parole per scoprire il valore della diversità e immaginare il futuro del lavoro». Scritto con Sandro Catani, edito da Garzanti, le somiglia nei tratti fondanti: è chiaro, concreto, coerente nel suo concetto corale di creatività.

«Si vince solo insieme» è una conversazione tradotta su carta: anche un libro dunque può essere un gioco di squadra?
Il dialogo è una forma letteraria inusuale: intelligente e complicata, arricchente e impegnativa. Il senso del titolo è che se sai ascoltare bene il punto di sintesi fra due voci è un gioco di squadra. Solo insieme si può vincere davvero. Insieme si sceglie la via migliore.

«Undici parole per scoprire il valore della diversità e immaginare il futuro del lavoro»: ce n’è una più imprescindibile di altre?
Forse l’ultima poteva essere la prima: è la felicità che passa attraverso il rispetto delle generazioni, la dignità del lavoro, l’accettazione delle proprie fragilità. Felicità: una parola che include tutte le altre.

C’è un commento al libro che l’ha colpita più di altri?
Ne ho ricevuti tanti, tantissimi su un punto in particolare: quando racconto di aver perso la gara per il ruolo di Senior Partner di Linklaters Worldwide. Riconoscere la delusione, lasciar andare ciò che si prova è catartico. Nei miei incontri con i giovani all’università Bicocca ho affrontato il tema: quanto non siamo abituati a raccontare ciò che non va bene. Come viviamo la competizione, a cosa diamo valore? Sbagliare può essere prezioso, è qualcosa da cui passiamo tutti. Riflettiamo su cosa mettiamo in un curriculum: secondo me dovremmo scrivere anche delle gare che abbiamo perso. Se ho perso, posso dire cosa poi ho guadagnato. Tante persone che hanno letto il libro si sono riconosciute particolarmente in questa parte. Il che mi fa riflettere sulla società in cui viviamo.

Valorizzazione delle fragilità, della diversità: quanto è difficile oggi in Italia trovare una via concreta per tradurre in pratica questi princìpi?
È veramente complicato. Ma dopo la pandemia un numero sempre maggiore di imprenditori e manager ha compreso quanto le aziende possano impattare sulle persone; l’attenzione all’aspetto umano, all’importanza del well being, è cresciuta e va integrata: nelle difficoltà serve più coraggio che mai, devi essere solido e risolto per ammettere di essere fragile. La self confidence vera ti fa capire che non puoi fare tutto e non devi sentirti in colpa se non ci riesci. Andiamo oltre certi modelli tradizionalmente imposti: il risultato positivo di solito arriva dopo 100 fallimenti. Cadono barriere anche nello sport, in questo modo, grazie alla capacità di essere veramente inclusivi.

Quattro anni fa in un Ted Talk al Politecnico di Milano immaginava di osservare dall’alto una distesa di teste blu con qualche testa rossa: le donne. Oggi sono ancora così poche nel mondo del lavoro? Cosa manca perché il cambiamento in atto sia più ampio e più in alto?
Non si sono fatti grandi passi avanti negli ultimi anni. Anzi, nell’emergenza da Covid c’è stata una fuoriuscita più di donne che di uomini. Ma in prospettiva è importante cogliere il valore dell’inclusione: non solo in termini di blu e rossi, anche per generazioni e collocazioni geografiche differenti. Anche in tutto ciò che è business conta saper attingere dall’intero bacino di talenti disponibile. Rispetto a 4 anni fa quindi l’istantanea che si può scattare dall’alto non è molto diversa, ma presto il mondo sarà più colorato. La foto appare statica, ma la possibilità di un cambiamento repentino è più vicina. Io sogno tavoli lunghissimi che abbiano sedie per tutti.

Il suo è un percorso di vita e professionale eccezionale: riavvolgendo il nastro, quali sono state le tappe più importanti? 
Innanzitutto, la bocciatura all'esame da avvocato. Era andato tutto troppo bene fino a lì, non sarei la stessa oggi se avessi superato subito quello scoglio. Ridimensionare tutto, tenere i piedi per terra, aiuta poi quando fai passi avanti. Altro snodo fondamentale, aver avuto il coraggio di fare le cose che mi piacevano. Oggi la mia professionalità è arricchita dalle esperienze che ho fatto e che all'apparenza non sono minimamente attinenti al lavoro da avvocato. Cosa c'entra il sostegno ai rifugiati con la professione forense? Le mie scelte non sono state strategiche, hanno comportato un impegno maggiore senza agevolare in alcun modo la carriera, ma mi hanno resa la persona che sono e mi fanno essere completamente rotonda. Tutte le parti della mia vita coesistono in armonia. Ai giovani dico: non abbiate paura di abbinare cose che per altri significano nulla, perché più provate passione, più vi piacerete e sarete spinti ad agire.

Quanto contano, e hanno contato, le radici bresciane?
Io amo essere bresciana. Ho vissuto nella mia terra fino a 19 anni, oggi ne ho 51 e ho viaggiato tanto all'estero, ma di recente in una call con un tedesco che vive a Londra quando mi ha detto «Sei di Milano» ho risposto senza esitare «No, io sono della Franciacorta: dove si produce il vino». Lì è casa mia, dove mi ritrovo. Tante cose che mi porto dentro le ho imparate in piazza a Rovato, in quel contesto: i valori, il coraggio, cosa comporta davvero fatica e cosa no. I miei modelli sono stati il panettiere, il macellaio: nei loro tratti caratteriali io mi riconosco.

Brescia 2023: cosa si aspetta dalla Capitale della Cultura?
È nel mio stile abbinare le cose: ricordando ai più giovani che tutto il mondo guarda all'Italia come a un Paese bellissimo, dico che la nostra città è come una donna splendida che deve farsi scoprire. Ha tratti forti e gentili, la nostra leonessa: anche a livello di business dovrebbe sfruttare questa occasione di visibilità con lungimiranza.

Nel corso dell'ultimo incontro di The Circle Italia Onlus all'Albereta ha sottolineato come la normalità sia un bene prezioso. Cosa si può fare perché questa verità si diffonda e inneschi circoli virtuosi nei comportamenti?
Citando la lezione di Falcone e Borsellino, anziché lamentarsi bisogna fare. In una città forte mi piacerebbe prevalesse il tratto del buon esempio. La fierezza che stimola chi ti sta accanto. I comportamenti hanno un impatto, le persone possono scegliere di essere positive. Questo modo di essere potrebbe diventare una virtuosa normalità.

Come sono stati questi primi mesi da presidente?
Intensi, come in ogni nuovo lavoro. Occorre immedesimarsi, indossare il ruolo, assorbire l'esperienza di chi ti ha preceduto. Ma sono stati mesi sorprendentemente belli. Ho riscontrato tanto talento, tanta voglia di fare. Giovani e donne, tante e capaci. Sono orgogliosa della cultura del merito che ho trovato.

Si è definita «sognatrice»: cosa sogna adesso?
Sto cercando una piccola casa in Sicilia, nella parte dell'isola che guarda all'Africa, dove tutto è molto lento. Vorrei poter godere di una natura selvaggia e perdere il senso del tempo. La cosa che mi pesa di più negli ultimi anni è averne poco; se non ho tempo, allora lo libero. Questo voglio fare: ridarmi delle priorità. Anche quella di poter perdere tempo rimirando un cactus nei pressi dell'Africa.

Il lavoro, la famiglia: quali finestre si ricava per sé ora?
Faccio meditazione. Dedico ore alle mie figlie, trascorro tempo di qualità con loro. In una giornata infilo tante cose ed è faticoso: voglio avere più spazio per la mia parte creativa, per progetti che richiedono tempi più lenti. Non voglio sempre dover fare azioni d'urto.

Se non fosse diventata avvocato, cos'avrebbe fatto?Mi sono spesso fatta la domanda opposta: ma io sono un avvocato?
Ultimamente sono stata più manager. Ho tante passioni. Adesso adoro scrivere: un altro modo di guardare i cactus. Amo tutto il mondo del design, del bello, l'arte di arredare una casa. Quando viaggio per lavoro compro riviste di arredamento e in aereo mi chiedono se sono un architetto.

Cosa risponde?
Né sì né no: potrei arredare una casa, ma lo farei comunque da imprenditrice. È il mio spirito imprenditoriale che viene dalle radici. Da quella piazza di Rovato. Lo spirito delle piccole imprese e di mio padre, che stava sempre al telefono con i clienti. Potrei avere un negozio o arredare una casa, ma il mio stile sarebbe sempre lo stesso. È il mio modo d'essere.

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