INTERVISTA

Fabio Petromer

di Gian Paolo Laffranchi
«Racconterò piazza Loggia Il ricordo è sempre vivissimo»
Nato a Brescia il 29 novembre del 1956, Fabio Petromer è semiologo oltre che romanziere
Nato a Brescia il 29 novembre del 1956, Fabio Petromer è semiologo oltre che romanziere
Nato a Brescia il 29 novembre del 1956, Fabio Petromer è semiologo oltre che romanziere
Nato a Brescia il 29 novembre del 1956, Fabio Petromer è semiologo oltre che romanziere

Se vuoi raccontare, prima devi vivere. Se vuoi progettare il futuro, prima devi capire il passato. Fabio Petromer si è dato coordinate precise, lungo il percorso che il 29 di questo mese lo porterà a compiere 65 anni. Un bagaglio di mestieri come la collezione di alias di un agente segreto, l'eclettismo del semiologo che si è scoperto scrittore di vaglia dandosi una scadenza: «Nel 2024 pubblicherò il mio romanzo finale. L'ultimo mio atto da narratore». Tema, piazza Loggia. Ventotto maggio millenovecentosettantaquattro: la strage che è una ferita ancora aperta per la città, per quella generazione, per l'autore che c'era, ha sofferto, non ha dimenticato. «Racconterò ciò che ho vissuto - annuncia e premette -. Con l'emozione vivissima del ricordo ancora forte in me. Con il solito gusto di scrivere la verità, anche a costo di dare fastidio».

La meglio gioventù di mezzo secolo fa appare oggi più fresca ed estrema dei ventenni 2.0. Questione di spirito?
La mente vuol dire tanto. Portare avanti un discorso coerente di vita.

Dove ha appreso i rudimenti di questo slancio creativo?
Al Calini. I miei anni ruggenti dopo le medie alla Pascoli, da ragazzo di via Cremona qual ero. Il liceo scientifico è stato il vertice delle turbolenze giovanili. Questa mia generazione di vecchi allora voleva fare la rivoluzione. Soprattutto, amava fare politica.

Cosa ricorda in particolare di quel periodo, così distante dal tempo che stanno vivendo i teenager adesso?
Potrei dire che non mi annoiavo. Indipendentemente dalla mia volontà di dialogo, facevo in media un'ora e mezza su 5 di presenza: il preside del Calini, Gino Bambara, mi convocava spesso, trattandosi di mediare fra situazioni caustiche.

Con quale voto è passato all'esame di maturità?
Il mio 37 fu l'esito di una fase conflittuale. Con i docenti che meritavano di essere definiti tali il rapporto era ottimo, il dialogo anche serrato. Con gli altri no. Comunque le conoscenze sedimentavano e sono venute fuori dopo. Io ho aborrito la matematica dal terzo anno fin quasi al quinto. Paradossalmente avevo ottimi voti in fisica, materia che potevo vedere, toccare; le formule matematiche no. Dopo tutto ero un materialista dialettico storico: non potevo che faticare a rapportarmi all'algebra. Ma la matematica, uscita dalla porta, è rientrata dal buco della serratura: sono diventato semiologo, giocandomi tutto in quell'area brillante che unisce la filosofia al pensiero matematico. Un ambito di pura creatività. E mi sono laureato, con 110 e lode.

Dove?
A Bergamo, in lingue e letteratura russa. Venivo da un periodo turbolento, certo; al tempo stesso conoscevo abbastanza bene l'inglese e sentivo mancarmi l'altra metà della cultura che desideravo approfondire. Ho scoperto un mondo di Kandinskij, Stravinskij, Shostakovich.

In casa la stimolavano in questo senso?
Mamma casalinga, babbo piccolo imprenditore edile: questo il mio contesto. Sono eclettico perché così è la mia natura.

Non solo semiologo.
No: anche insegnante di inglese, traduttore del russo tecnico, impiegato commerciale, responsabile di mercato, export manager, socio di una import export. Soprattutto papà adottivo di due bambini che oggi hanno 27 e 25 anni; per loro sono tornato nel 1999 in Russia, dove avevo vissuto quando lavoravo per l'import export fra il 1990 e il 1994. Poi mi sono impegnato come collaboratore di case editrici in qualità di agente di propaganda, e mi sono cimentato da scrittore.

Anche qui: non soltanto romanziere.
Ho scritto due libri di didattica scolastica sull'inglese per geometri. E autoprodotto più di trent'anni fa un testo esplosivo sulla «semiotica delle icone», riutilizzato da altri all'università al punto che potrei gridare al plagio. Il concetto di fondo: se posso affermare con l'applicazione di uno schema geometrico che l'impostazione delle opere medievali non era venuta giù dal cielo, ma era stata pensata e organizzata da una mente umana, poi si dovrà ripensare il Medioevo tutto in maniera diversa. Non voglio negare la fede, il credo, l'ispirazione di chi creava, ma coloro che gestivano la cultura non erano scemi, avevano pensato uno spazio organizzato non solo in maniera geometrica ma anche linguistica. I fenomeni della comunicazione si possono analizzare su base bidimensionale ma anche tridimensionale. Il testo è accattivante perché attira, ma crea domande inconsapevoli e questo dà fastidio. Del resto non esito a far pensare, a turbare se è il caso, anche quando faccio narrativa.

Quando ha cominciato a sentirsi narratore?
Nel 2005 ho pubblicato «Come d'incanto allo stato brado» con Nadia Campanelli: due cinquantenni che si incontrano su un treno e iniziano a ricordare cosa succedeva trent'anni prima. Nel 2007, con «Le formiche nel cassetto», mi sono dedicato al mondo adolescenziale.

Una scrittura densa, di forte impatto eppure scorrevole.
Quello che cercavo e ho cercato anche nei due libri più recenti, quest'anno: «Abbi dubbi» e «Bizzarro». È passato tanto tempo, prima di tornare a pubblicare, perché per me la scrittura non può essere legata direttamente ad aspetti commerciali, o peggio al desiderio di successo o di visibilità per soddisfare angoli di miseria umana. La scrittura è un demone devastante com'era per Dostoevskij, che si consumava nell'atto creativo, o un demone addomesticato, quando prevale il calcolo. Io non sono in preda ad alcun demone: scrivo per il piacere di farlo, per la passione che mi entusiasma.

Una volta in cui si entusiasmò?
Quando Renzo Baldo nel 1978 mi fece pubblicare tre racconti con Bresciaoggi al mio ritorno dalla Russia, dov'ero già stato allora.

Com'è cambiata Brescia in mezzo secolo?
Non solo a Brescia, non solo qui, la rivoluzione digitale ha portato ad un livello di non comunicazione (o difficoltà di comunicare) estrema. Questa situazione in evoluzione mi interessa molto.

Cosa le piace leggere?
Sono vorace, leggo due libri per volta. In questo momento sto riesplorando Hemingway. Dove parla il testo io sono felice: non amo che gli autori parlino del libro, nelle pagine pubblicate c'è già tutto quello che serve. Se devo spiegare cosa ho scritto, vuol dire che non ho raggiunto lo scopo. Un libro non è un film, lascia più libertà d'immaginare al lettore rispetto allo spettatore. Un mio testo è come un figlio: una volta venuto al mondo cammina con le sue gambe.

Quando non legge e non scrive, cosa l'appassiona?
Mi piacciono le gite, andare in canoa sui laghi. E amo dedicarmi agli affetti.

Suggerimenti