INTERVISTA

Fabrizio Cassano

di Gian Paolo Laffranchi
«Volevo un tour con la Pfm. Ho finito per girare il mondo»
Fabrizio Cassano: settant’anni, ha girato il mondo respirando musica e arte, ampliando con i viaggi i suoi orizzonti
Fabrizio Cassano: settant’anni, ha girato il mondo respirando musica e arte, ampliando con i viaggi i suoi orizzonti
Fabrizio Cassano: settant’anni, ha girato il mondo respirando musica e arte, ampliando con i viaggi i suoi orizzonti
Fabrizio Cassano: settant’anni, ha girato il mondo respirando musica e arte, ampliando con i viaggi i suoi orizzonti

Sessantottino come lui, nessuno mai. Allora oggi e per sempre. Segno zodiacale Leone, «come Mick Jagger». Ma a differenza dei Rolling Stones è nato a Brescia e cresciuto a Palazzo Sorlini in via delle Grazie, che non è proprio Dartford nella contea del Kent ad Est di Londra. È la sua città, il posto in cui Fabrizio Cassano è tornato dopo «cinquanta viaggi in lungo e in largo, lontano da qui». E come si fa, dopo aver visto tanto, ad accontentarsi di un solo orizzonte, snaturando una voglia innata di mondo e di vita? Diciotto agosto 1951, segni particolari «ribelle». Così è se vi pare (ma anche e soprattutto se non) il signor Cassano. Che l’arte scoperta all’estero l’ha portata qui e ci ha fatto un negozietto (rimasto aperto quasi trent’anni). Che è stato «uno dei primi a mostrare ai bresciani cose nuove provenienti da Oriente». A Oriente vuol tornare e tornerà, magari, Covid permettendo. Nel frattempo è bello ripercorrere la strada fatta fino a qui. Parecchia, senza voltarsi mai indietro.

Dove è iniziata la sua rivoluzione?
È partita dalle Orsoline. Non riuscivo a stare, non mi trovavo bene, arrivarono a retroabilitarmi dalla seconda alla prima per qualche settimana. Ma le ringrazio, le suore.

Perché?
Mi hanno dato un’inquadrata che mi è servita poi per non cadere in certi baratri.

Quante scuole ha frequentato?
Impossibile ricordarle tutte. Arici, Calini, San Carlo a Milano, finché sono finito in collegio in Svizzera.

Famiglia abbiente.
Dall’inizio del secolo scorso servivamo lo Stato producendo esplosivi per uso civile. Durante la guerra del resto se potevi e non lo facevi ti requisivano la fabbrica.

Come si è trovato in Svizzera?
Benissimo! Io sono un collezionista di dischi e lì c’era un negozio fantastico. Ci passavo i pomeriggi e Montreaux con i suoi concerti era a due passi. Al cinema davano «Easy rider» ed io ero un ragazzo che ascoltava «Bandiera gialla» con Arbore e Boncompagni.

Altre passioni?
La vela era di famiglia. Mio zio materno era presidente di un circolo a Gargnano. Ho visto le Centomiglia più belle, le più avventurose, seguirle col barchino di notte era una favola. Ora c’è troppa tecnologia, le imbarcazioni non mi sembrano più così eleganti e non seguo più.

Dopo la Svizzera?
Sono tornato in Italia, per fare 3 anni in uno a scuola. Ma mi interessava altro.

Per esempio?
L’arte. Mia mamma era scultrice, la sera si ritirava in studio. Sto pensando di organizzare una mostra con la sua produzione.

Quindi pensava di fare l’artista?
No: pensavo di girare il mondo. E ho cominciato facendo il tecnico della Pfm, a 19 anni. Era successo perché io frequentavo i locali bresciani in cui venivano i gruppi, il Paradise, il Racing Car, e in una serata intitolata «Il Club dei Fornai Daltonici» suonavano Dalton, Forneria Marconi e Club 76. Quella sera conobbi Mauro Pagani. Suonava strumenti strani e siamo diventati amici. L’ho seguito a Milano in una comune. Condividevo la stanza con Angelo Quattrocchi che ha creato la rivista «Fallo!», Marco Amante che ha scritto «Viaggio dell’Eden» molto prima delle Lonely Planet, Delfina Vezzoli poi traduttrice per Bompiani e amica di Fernanda Pivano...

Ma lei doveva seguire la Pfm.
Sì, torniamo alla Pfm: prima come tecnico e fonico c’era stato Marco Damiani detto Il Gorilla, poi un altro, poi sono arrivato io. Dovevamo partire in tournée verso sud: appuntamento al mattino in stazione per salire sul furgone mitico della band. Naturalmente sono arrivato in ritardo.

Cos’ha fatto allora?
Cosa potevo fare... Ho chiamato un taxi e mi sono fatto portare da Brescia all’ingresso dell’Autostrada del Sole. Una volta arrivati... Non avevo soldi. Neanche una lira. Ho dato la mia carta di identità al tassista, dicendogli «Vada a casa da mia mamma e si faccia pagare». Poi ho fatto l’autostop e ho raggiunto la Pfm.

Il tassista c’è andato, a casa da sua mamma?
Naturalmente.

La tournée?
Otto mesi con la Pfm, facendo di tutto. Grande gioco di squadra, come nella comune in cui mi sorbivo con gioia l’amico Pagani col leggio e il violino a tutte l’ore... Non si dormiva! Gli anni del beat. Bei tempi, sì. Un giorno mia mamma invitò a pranzo Pagani e Amante, che nel 1972 aveva preso in un suo viaggio un dipinto tibetano. Pareva davvero prezioso. «Se suo figlio un giorno volesse intraprendere un lavoro particolare...».

E le si è accesa la lampadina.
Compiuti i 21 anni ho preso il passaporto, deciso a tutto. «Vuoi andare in India? Eccoti diecimila lire per le cartoline e ciao». Sono partito con un’amica, abbiamo racimolato altri soldi e a Istanbul anziché 2 eravamo già in 8. Poi Teheran e Kabul. Affascinante.

Cinquanta viaggi: dove si sarebbe fermato a vivere?
In tanti. Quasi tutti mi hanno lasciato senza fiato. Il mondo è un posto meraviglioso. È l’uomo la nota sbagliata. Se devo scegliere: il nord del Vietnam, il Laos. La Cambogia che ho desiderato tanto perché era il posto proibito. Mi dissero «Lì sparano, c’è rivolta». Risposi «Benissimo». L’ho visitata la prima volta nel 1998, l’ho amata come ho amato Goa.

Goa, i raduni Full Moon...
Con la Beat Generation si doveva passare di lì. Ma tutto quel periodo, e Woodstock per dire, tutto sommato non era mica così male. Anzi. Forse proseguendo con maggiore accortezza il mondo sarebbe potuto diventare un posto diverso.

Fra un viaggio e l’altro tornava a Brescia.
Il mio negozio con opere importate dall’Oriente è rimasto aperto dal 1972 al 2000. In Oriente ho imparato tanto della vita. Fra le altre cose, che è più facile trovare una persona in tutta l’India che cercarla a Brescia. Sono anche tornato a casa con una discreta quantità di strumenti musicali. E con un gusto nuovo. Quando ho rivisto suonare la Pfm a fine concerto mi hanno chiesto «Ti siamo piaciuti?». Non potevo che dire «No!».

Cosa ha iniziato a piacerle?
Mi sono messo a suonare il sitar. Ho ancora il volantino di un concerto che ho fatto a supporto della depenalizzazione dell’aborto, quando Adele Faccio venne a Brescia e suonammo per sostenere la causa. A Chiesanuova ho aperto col mio gruppo per gli Aktuala, che erano del giro di Battiato e Claudio Rocchi. Li ho seguiti. Ci siamo trasferiti insieme a Pistoia, in un mulino del ’600. Il primo parcheggio era a 8 chilometri a piedi. Una jam session continua.

A Brescia poi ha aperto, di fatto, un museo di arte orientale.
Da viaggiatore volevo allargare i confini. Ho fatto la prima mostra sulla Cambogia e in Cambogia ho avuto modo di accompagnare Vittorio Sgarbi, che è tornato in Italia con una montagna di libri. Con un’associazione umanitaria volevo organizzare un concerto di Pavarotti che poi si è fatto a Modena grazie ai buoni contatti allacciati con la casa reale, che mi aveva permesso anche di portare un fotografo bresciano all’interno delle carceri, Roberto Dotti. Ho fatto mostre sull’arte nel Tibet e siamo riusciti a portare a Brescia la sorella del Dalai Lama, un’altra mostra con Ken Damy, una con Dotti e col collezionista di miniature indiane Giacomo Mutti...

Brescia nel 2023 sarà capitale culturale. Come appare ai suoi occhi, oggi?
Il valore di Brescia sta nelle persone che sono rimaste. E sono poche, rispetto a quelle che conoscevo. È la gente che determina i luoghi, nel bene e nel male.

Dove si trova bene, qui?
Frequento volentieri la galleria di Massimo Minini, il mio amico Ario Pizzarelli, lo studio fotografico di Rolando Giambelli. Vado a guardare da fuori Palazzo Sorlini, che spero possa tornare ad essere quello che ho sempre desiderato: un posto per la cultura in città.

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