L'INTERVISTA

Francesca Volpi: «Con i miei scatti racconto il mondo e le sue storie»

di Gian Paolo Laffranchi
I suoi click non hanno bisogno di tante parole. Il suo viaggio l'ha portata lontano da Brescia e poi riportata idealmente qui, lunedì scorso, sullo schermo del Nuovo Eden fra i protagonisti del miglior documentario dell'ultimo International Filmmaker Festival of New York.
Francesca Volpi - Le sue fotografie illustrano le conseguenze dei conflitti

«In prima linea» per un primo piano. Fedele alla linea del grande Capa (Robert, certo): se la foto non è buona è perché non sei abbastanza vicino. Ma anche (e soprattutto) fedele alla sua idea di ritratto: in primo piano c'è l'umano. Uno sguardo rubato, il sentimento colto come l'attimo che riscalda il cuore.
Francesca Volpi scatta così. Empatia fatta reporter: sente, s'immedesima, descrive, racconta. I suoi click non hanno bisogno di tante parole. Il suo viaggio l'ha portata lontano da Brescia e poi riportata idealmente qui, lunedì scorso, sullo schermo del Nuovo Eden fra i protagonisti del miglior documentario dell'ultimo International Filmmaker Festival of New York. Un inno al mestiere del fotocronista, nobile arte che milioni di smartphone nel mondo non potranno mai scimmiottare. Né sminuire.
Non ha, Francesca, troppo tempo di pensare a massimi sistemi, ai discorsi sul rapporto uomo-immagine che cambia. Lunedì al Nuovo Eden non c'era: risponde al telefono da Beirut, il collegamento regge ma dall'inizio alla fine non si può darlo per scontato.
«In Libano ora c'è il problema della benzina - spiega la fotografa indipendente bresciana -. Due ore di coda per avere 5 litri al massimo. Per fortuna un amico benzinaio qui sotto casa mi fa il pieno di notte senza farsi vedere, per farmi un favore. Qua è tutto razionato, la benzina, l'elettricità. E se si pensa che tutti hanno un generatore, che in ogni abitazione ci sono 4-5 condizionatori e vanno tutti a benza... Il quadro generale poi è complicato dall'inflazione, che è davvero pazzesca: sono arrivata nell'ottobre scorso e il dollaro era a 8 mila lire libanesi; adesso è salito a 18 mila. Due anni fa era a 1500».

Gli stipendi?
Sono rimasti uguali.

In Libano non per cercare tranquillità ma per fare reportage. Quanti paesi ha visitato nella sua carriera?
Una ventina ormai.

Lingue conosciute?
Parlo inglese, un po' di francese, un po' di spagnolo. E qualche parola di arabo.

Se dovesse riassumere il suo tour?
Nel 2013 ho documentato la deposizione del presidente Morsi in Egitto: il mio debutto. Nel 2014 ho deciso di iniziare il mio percorso da freelance coprendo la Rivoluzione di Maidan a Kiev, l'annessione della Crimea e la guerra nell'est dell'Ucraina, dove mi sono fermata a lavorare per due anni. Nel 2016 mi sono spostata in Messico e in Centro America, cercando una narrativa fotografica diversa in Honduras. Mi piace raccontare storie micro che aiutano ad avere una prospettiva sulle macro-tematiche: la violenza del mondo delle Maras, i conflitti ambientali, i diritti civili della comunità Lgbti, i problemi legati al sistema sanitario.

Girando il mondo ha collezionato collaborazioni da Bloomberg News a L'Espresso, da Le Journal du Dimanche a The Guardian. Ha potuto anche impegnarsi in progetti benedetti dall'International Women's Media Foundation e per l'organizzazione Women Photograph contro le discriminazioni di genere che inquinano anche la comunità del fotogiornalismo. Percorsi virtuosi. Inevitabile uscire dai confini per seguirli?
Da ragazza io non ho esitato a fare la valigia e partire. Per me era la cosa giusta da fare. Poi il lavoro mi ha riportato dalle parti di casa: per il Wall Street Journal ho coperto la pandemia da Covid-19 nel nord Italia. Ovunque, comunque, conta il senso del mestiere, che è sempre raccontare. In Honduras ho capito le ragioni della malavita. Ti indebiti con la criminalità organizzata perché non puoi pagare conti e cure, alla fine questi ti ammazzano mezza famiglia e tu scappi verso gli Stati Uniti. Ecco su cosa si basano le gang: sul disagio economico dei poveri. La violenza è solo una conseguenza. Un po' come in Italia, spesso.

Questo giornalismo va molto al di là delle imperanti breaking news.
Assolutamente. Mi interessa documentare, scavare a fondo. Essere fotoreporter.

Da piccola sognava questo?
Macché! Pensavo di fare l'avvocato, come voleva mio padre. Mia madre, che lavora nella moda, mi ha sempre sostenuto: «Fa' quello che vuoi». Dopo il liceo linguistico sono volata a Londra. Cinque anni in Inghilterra: ho smesso presto di seguire la strada della carriera legale, visto che il sistema lì è completamente diverso dal nostro, e mi sono messa a studiare giornalismo, imparando le basi alla Bbc dopo un corso triennale.

Quali sono le basi del fotogiornalismo, per la Bbc?
Attenersi ai fatti. Puramente ai fatti. Raccontare i fatti. E stop.

Gavetta?
Certo, per un giornale a Sud di Londra. Poi quasi 3 mesi al servizio internazionale della Bbc. Bellissimo. Dopo la riunione di redazione al mattino contattavo le persone da intervistare, seguivo professionisti con esperienze ventennali all'opera. Ho collaborato con l'Independent e pian piano capito come raccogliere le fonti, come muovermi, come riportare i fatti del quartiere per poi raccontare le grandi storie del mondo.

Mai pensato «Torno a casa»?
Mai. Difatti mia madre è venuta spesso a trovarmi. A mia volta nel 2010 io sono andata in Congo a far visita a mia zia, che è suora missionaria da 40 anni. Mia mamma mi ha regalato una macchina fotografica e ho fatto il primo reportage da lì per La Voce del Popolo. Ma stare in Congo costava troppo: mi sono trasferita un anno a Parigi, quindi a Roma per un master in fotogiornalismo. La mia tesi era sul caso Caffaro a Brescia. Poi in Ucraina hanno iniziato a scendere in piazza e nel febbraio del 2014 ho preso un biglietto da Orio al Serio a Kiev.

Volo di sola andata?
Sì. Ho preso un letto in un ostello da 5 euro a notte. Avevo un'agenzia francese fra i contatti, mi sono messa a spedirle foto. Venivo pagata pochissimo all'inizio ma gli scatti hanno preso a girare, sono finiti sul Time e su altri giornali francesi e tedeschi. Sono diventata un punto di riferimento ed è cominciato davvero tutto.

Il segreto?
Devi rimanere sul posto. Dedicare del tempo, di più, tutta la tua esistenza a questo mestiere che comincia al mattino e finisce alle 3 di notte, spesso, se vuoi farlo in un certo modo. Ho compiuto 36 anni a maggio e da 8 per me è così. È stata una scelta di vita. Io non faccio commerciali, pubblicità o matrimoni: lavoro solo per l'informazione o con organizzazioni non governative. Voglio raccontare storie, persone, dal vivo.

Oggi anche la fotografia è spesso virtuale.
Ma imparare a fotografare guardando Instagram è come imparare a fare sesso guardando film porno. Bisogna andare, uscire dalla comfort zone, mettersi in discussione anche in situazioni estreme.

Dove ha avuto più paura?
In Ucraina. Noi fotogiornalisti non siamo militari: siamo nella mischia per documentare, ma non sappiamo da dove stanno sparando. Un giorno stavo scappando e mentre correvo su un muro vicino ho visto uno sbuffo bianco alzarsi. Era un proiettile. Poteva colpire me.

Cos'ha pensato?
Che forse avrei fatto meglio a stendermi a terra. Me lo dicevo, mentre continuavo a correre.

Una foto di cui va più fiera?
Una famiglia ucraina rifugiata sotto un ombrello mentre piove, con i loro quadretti religiosi stretti fra le mani. Direi anche quella di un soldato seduto fra i feriti, lo sguardo perso all'orizzonte.

Cosa farà adesso?
Devo finire un lavoro in Honduras, interrotto per il Covid: per questo sono venuta in Libano, qui si poteva lavorare nonostante le restrizioni. Tornerò in Centro America per documentare la vita di una comunità indigena di afrodiscendenti. Abitano nel gruppo insulare dell'Isola dei Famosi, ma non potrebbero essere più distanti da quel mondo.

Magnifico contrasto.
Amo immergermi in contesti del genere, inesplorati.

Cosa ci dev'essere in una sua fotografia?
Tutto quello che abbiamo vissuto.

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