L'intervista

Fulvio Sigurtà: «Brescia, Boston, Londra... e dall'energia nasce il suono»

di Gian Paolo Laffranchi
Nato a Desenzano il 20 settembre 1975, Fulvio Sigurtà è musicista a tutto tondo: autore, interprete, docente
Nato a Desenzano il 20 settembre 1975, Fulvio Sigurtà è musicista a tutto tondo: autore, interprete, docente
Nato a Desenzano il 20 settembre 1975, Fulvio Sigurtà è musicista a tutto tondo: autore, interprete, docente
Nato a Desenzano il 20 settembre 1975, Fulvio Sigurtà è musicista a tutto tondo: autore, interprete, docente

Desenzano, Lonato, Brescia. Boston, Londra, mondo. Fulvio Sigurtà lo ha girato, e continua a farlo, praticando l’arte di un linguaggio universale che non (ri)conosce confini. Suona la tromba e fa jazz con lo stesso slancio da una vita. Nei giorni scorsi ha suonato a Bagolino prima e a Nizza poi: difficile immaginare due contesti più diversi, ma alla fine «l’emozione quella è». La gioia di esprimersi, creando.

Ama viaggiare o si è dovuto adattare?
Ho sempre viaggiato con e per la musica. Spostamenti dovuti anche al desiderio di ricerca: prima del Covid, per esempio, ho trascorso un mese in India a studiare solfeggio. Seguendo la vocazione, ho approfondito stili diversi in luoghi diversi. In Massachuttes, a Boston, ho frequentato il Berklee College of Music dal 2003 al 2005.

Uscito con il massimo dei voti e con la lode, è volato a Londra per il master alla Guildhall School of Music. Dall’America all’Inghilterra.
A Londra sono arrivato quasi per caso, direi, e mi sono ritrovato a viverci fino al 2018. Il destino ci mette lo zampino, anche se non sarei rimasto tanto a lungo se le cose musicalmente non avessero funzionato così bene.

Il destino, ma anche un dono naturale. Quando ha capito di averlo?
Sono nato a Desenzano ma sono cresciuto a Lonato, andando a scuola lì. Devo dire grazie ad Angelo Boldrini, mio insegnante alle elementari, perché mi ha incoraggiato tanto. È venuto a mancare qualche mese fa, a quasi cent’anni. Era stato anche il maestro di mio papà. È stato molto generoso nei miei confronti, riuscendo a farmi capire che dovevo assecondare il mio talento, seguire la strada che mi si parava davanti.

Perché la tromba?
Per caso, o quasi: da ragazzino, tramite la banda. Mio fratello suonava il clarinetto e io volevo imitarlo, ma non potevo sostituirmi a lui. Ho suonato la batteria, e mi divertivo un sacco a pestare piatti e rullanti, e la tromba, che mi ha scelto: era bella, luccicante, non potevo resistere. Da allora, avevo circa 7 anni, è diventata la mia missione. Col tempo mi sono imposto di puntare alla smilitarizzazione dei suoi suoni.

Cosa intende esattamente?
È un’idea timbrica. È una riflessione soprattutto degli ultimi anni: voglio togliermi dal suono classico della tromba, quello che appartiene all’immaginario collettivo.

Quello più squillante?
Sì. Io ora suono la tromba un po’ come fosse un flauto.

La sua idea affonda le radici nel Conservatorio a Brescia?
In realtà a quei tempi ero in sofferenza: lo ricordo come il periodo più difficile della mia vita, molto faticoso perché lavoravo ogni giorno. Operaio al mattino, studente al pomeriggio. Dopodiché ha scelto. E mi ricordo bene il momento del licenziamento. A 25 anni vinsi la borsa di studio che mi avrebbe portato a Berklee. «Adesso o mai più», mi dissi. Avevo due diplomi, in tromba classica e tromba jazz. Non esitai.

Tornasse indietro?
Avrei quello stesso coraggio, senza ombra di dubbio.

L’incontro decisivo?
Quello con Enzo Pietropaoli: mi ha fatto capire chiaramente qual era la mia indole. Mi ha proposto musiche da suonare in cui potevo davvero sentirmi a casa. A volte quando scrivi musica e la scrivi per te, non hai ben chiaro il riferimento di te stesso; lui sentendomi suonare ha capito il mio potenziale e mi ha consentito di metterlo a fuoco. Non a caso abbiamo fatto 3 dischi insieme. Ha individuato le mie caratteristiche, capendole prima di me.

Se dovesse indicare la tappa fondamentale del suo percorso?
Nella mia memoria è scolpito l’attimo in cui ho deciso definitivamente che questo sarebbe stato il mio mestiere. Ero a Roma per l’anno di leva, prestavo servizi come trombettiere in Aeronautica. Ci fu una tragedia durante la guerra dei Balcani, cadde un aereo e dovemmo suonare il Silenzio al cimitero del Verano. Ricordo le bare, le bandiera, l’atmosfera surreale e l’energia potente che sgorgava dalla musica. Pensai allora, e lo penso allora, che trasformare l’energia in suono valga sempre la pena.

Jazz e dintorni, risposta secca: Miles Davis o John Coltrane?
John Davis! Anche se Miles… Beh, è Miles.

Keith Jarrett o Weather Report?
Wayne Shorter!

Herbie Hancock o Chick Corea?
Corea.

Mi ha spiazzato. In Italia: Napoli Centrale o Perigeo? Perigeo. Area o Arti e Mestieri?

Arti e Mestieri.

La sua band dei sogni, il dream team di musicisti di tutti i tempi a suo gusto?
Semplice: mi infilerei nel quartetto di Shorter così com’è. Lo farei diventare un quintetto. Mi divertirei tantissimo.

Cos’altro la diverte, musica a parte?
Leggere, ma ho poco tempo. Raccogliere funghi: mi piace anche studiarne le potenzialità sul piano della ricerca medica. È un discorso legato alla psichedelia, ma pure alla cura di tante malattie. Ho letto molto sull’argomento.

Cos’è per lei la musica?
È una specie di bolla. La cosa che mi interessa di più non è stare sul palco: io ho bisogno di studiare, di raggiungere quello stato meditativo in cui tutto il resto si cancella. Preservare un momento della giornata per farlo è fondamentale. Amo dedicarmi a una relazione così pura fra il corpo, con le sue sensazioni, e la produzione di suoni. È qualcosa di misterioso, questa trasformazione delle sensazioni che diventano punto di contatto con altre energie, sentite e condivise.

Ha un sogno?
Più che altro, penso ai prossimi appuntamenti: dopo essere rimasti a lungo in attesa per la pandemia già questa ripartenza è un sogno. Il 19 agosto sarò in piazza a Chiari per un concerto, con il nuovo quartetto Extended Singularity: io a tromba e flicorno, Stefano Onorati al pianoforte, Gabriele Evangelista al contrabbasso, Alessandro Paternesi alla batteria. In settembre, l’11 sarò a Lonato davanti al duomo per il Festival rinato sulle ceneri del Garda Jazz, che era stato ucciso dalla politica. Sempre lì il 10 suonerò con il Fedra Ensemble. Non vedo l’ora.

Entusiasta come 10 anni fa?
Altrettanto. Se non di più.

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