INTERVISTA

Gianni Maroccolo

«Il mio percorso bresciano dai Timoria ai Deproducers»

Chi è quel musicista che ha fatto parte di (o collaborato con) tutte o quasi le più influenti band italiane dei tempi d'oro targati '80/'90? Ha prodotto i Timoria. È stato un Litfiba. Un Cccp (anche nelle reincarnazioni Csi e Pgr). Un Marlene Kuntz. Ma l'elenco sarebbe pressoché infinito: Gianni Maroccolo detto Marok è il cavaliere jedi del rock italiano. La sua forza ha infuso energia a una scena che attraverso i decenni si è evoluta, ma ha sempre visto in lui un punto di riferimento imprescindibile. Prova ne sia che il bassista-e-produttore di Manciano adesso è al lavoro con Edda per uno dei lavori più attesi del panorama cantautorale odierno. La sua influenza nel Bresciano non si limita al merito di aver tenuto a battesimo i primi passi di Omar Pedrini e compagni più di trent'anni fa: ha fatto musica con Ivana Gatti, ha portato (anche pochi giorni orsono) il progetto Deproducers al Teatro Grande. «Brescia è terreno fertile - sottolinea - e sono davvero contento di tornare qui spesso: nel tempo si sono consolidati legami importanti».

Cosa ricorda degli album dei Timoria prodotti nel 1990 e nel 1991?
È stato per merito di Francesco Caprini, un funambolo creativo, che il mio percorso si è incrociato con quello dei Timoria, che si erano formati da poco. Mi propose di conoscerli e mi sembrarono subito in gamba. I testi erano poetici, con richiami alti. Suonavano bene, cantavano bene e mi piaceva il loro piglio. Era la mia prima produzione con un'etichetta major e volevo alzare l'asticella. Fu una bellissima esperienza con un ottimo fonico, Dario Caglioni. Ci raggiunse anche Giorgio Canali. Il primo disco era già a fuoco, il secondo ha avuto una gestazione più frammentario e il mio ruolo è stato meno invasivo perché i Timoria a quel punto erano già un po' più esperti.

Sempre a Brescia l'ha riportata Ivana Gatti, nel cuore degli anni Duemila.
Mi scrisse per proporre le sue canzoni senza sapere chi fossi, l'affascinava il mio cognome che faceva un po' Nord Africa. Dopo uno scambio epistolare la spiazzai proponendole di buttare giù subito pezzi tutti suoi: «Secondo me hai un modo di scrivere originale», le dissi. Abbiamo iniziato a scambiarci file audio e dopo 2 ep è nato il progetto IG, un duo con un album e date anche all'estero.

In Belgio, Francia e Lussemburgo, con una super band: la bresciana Daniela Savoldi al violoncello, l'ex Litfiba Antonio Aiazzi alle tastiere, l'ex Marlene Kuntz Luca Bergia alla batteria.
Una splendida avventura, un mix fra il mio lavoro e quello di Ivana molto melodico e mediterraneo.

Adesso coi Deproducers frequenta il palco del Massimo cittadino. Come prosegue l'esperienza con Vittorio Cosma, Riccardo Sinigallia e Max Casacci?
La nostra musica vuole veicolare messaggi scientifici ed è emozionante vedere la reazione degli studenti, che mascherano meno le emozioni. In certi nostri passaggi sono scattati gli applausi con un tifo da stadio.

Era nei Litfiba che hanno capitanato la nuova onda degli '80, era nei Csi che hanno portato in vetta alle classifiche il rock indipendente, poi è entrato nei Marlene Kuntz. Ha affiancato frontman carismatici e diversissimi come Piero Pelù, Giovanni Lindo Ferretti e Cristiano Godano. Qual è stato il filo conduttore?
Ho sempre fatto scelte di vita, non di ego. Non mi sono mai accontentato. Lavorare con persone creative e dal carattere forte è una fortuna, anche perché di volta in volta ho sempre fatto solo quello che mi appassionava. Per questo ho evitato di produrre artisti che sul piano del ritorno commerciale erano autentici big. Preferisco produrre i primi dischi di gente promettente, posso essere più utile così. Mi sono sempre stati a cuore di più incontri speciali come quello con Claudio Rocchi, artista indimenticabile.

Di lei estimatori e detrattori hanno detto spesso la stessa cosa: «Maroccolo suona il basso come un chitarrista». Sta di fatto che i suoi giri di basso, da «Re del silenzio» a «Forma e sostanza», hanno fatto la storia del rock italiano. Il suo preferito?
Innanzitutto, io non mi rendo mai conto di quanto possa piacere un giro mentre lo creo: il successo lo decretano gli altri. Sono particolarmente legato a «Ferito» dei Litfiba e a «Unità di produzione» dei Csi, ma tendo ad inquadrare l'insieme, non le mie parti: ricordo gli arrangiamenti di ogni singolo musicista anche a distanza di anni.

Un bel talento: si sente un po' direttore d'orchestra?
Me l'hanno detto spesso. È la mia visione della vita, e della musica: un gioco di squadra. Poi certo, sono un tipo puntiglioso.

Il nuovo rock è dei Måneskin, i nuovi cantautori sono Blanco e Mahmood. Cosa e quanto è cambiato rispetto a trent'anni fa?
A me pare che il cambiamento epocale prescinda dai singoli. Mi spiego: noi ci ribellavamo alle logiche del mercato, alla politica, al sistema. Oggi al massimo si canta contro la guerra o la malavita e dire che la guerra è sbagliata va sempre bene, non costa nulla. Ma le scelte anti-sistema non le vedo più. Non si alza mai un vero grido di protesta. L'appiattimento è generale e non riguarda certo soltanto la musica. Non posso sopportare di non riconoscermi nelle parole di politici di sinistra per ritrovarmi d'accordo con esponenti di destra: non esiste, è il mondo alla rovescia per me! Fatico a raccapezzarmi.

La musica come salvezza?
Di certo i progetti da portare avanti non mi mancano: i volumi della mia collana Alone per abbonati, i live con i Deproducers, la collaborazione con Antonio Aiazzi. Ho un album in cottura con Hugo Race: a giugno ci rivediamo per definire. E sto producendo il disco di Edda che uscirà a settembre. Un disco stupendo..

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