INTERVISTA

Giovanni Molinari

di Gian Paolo Laffranchi
«Così la sala Recaldini è rinata. Ora qui la cultura è di casa»
Due mesi fa nella sala Recaldini la mostra celebrativa del Brescia '79/80 che conquistò la Serie A: Giovanni Molinari fra Gabriele Podavini e Paolo Parizzi
Due mesi fa nella sala Recaldini la mostra celebrativa del Brescia '79/80 che conquistò la Serie A: Giovanni Molinari fra Gabriele Podavini e Paolo Parizzi
Due mesi fa nella sala Recaldini la mostra celebrativa del Brescia '79/80 che conquistò la Serie A: Giovanni Molinari fra Gabriele Podavini e Paolo Parizzi
Due mesi fa nella sala Recaldini la mostra celebrativa del Brescia '79/80 che conquistò la Serie A: Giovanni Molinari fra Gabriele Podavini e Paolo Parizzi

Càpita, crescendo, di capire che il sogno da realizzare è un debito da saldare con la propria infanzia. Mettere le cose a posto, da grandi, ridando vita a qualcosa che dava gioia e serenità quando si era piccoli. «Mi piangeva il cuore, a vedere quella sala della chiesa in cui ero stato chierichetto così malridotta, mezza distrutta. Non faceva onore al mio Don, che tanto aveva fatto allora per la comunità di Bettole e Buffalora. Dovevo fare qualcosa». Giovanni Molinari ha fatto di più. Ha trasformato quell'ambiente abbandonato al suo destino nella sala Don Andrea Recaldini: gli ha ridato un senso come spazio espositivo intitolato al parroco mai dimenticato, un museo colmo d'arte preziosa, un luogo di cultura antica ma anche presente, decisamente viva e altrettanto pulsante. Un piccolo miracolo di lungimiranza e forza di volontà. «Tutto è cominciato nel 1998, quando ho acquistato la sala - ricorda -. Ma l'idea l'avevo da tempo. Non sopportavo ciò che ero diventato un posto così importante per l'adolescenza mia e di tanti ragazzi di una volta. Volevo fare qualcosa anche per i ragazzi di oggi, che meritano uno spazio come questo».

Idea ambiziosa: il recupero storico e architettonico minuzioso di un edificio cinquecentesco non è cosa di tutti i giorni. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: una sala realmente restituita alla comunità. Niente più riti, ma numerosi eventi all'insegna dell'apertura mentale, di una curiosità creativa, di un ampliamento autentico degli orizzonti .
Si poteva fare! Ed è stato fatto. Lo spazio era sconsacrato da tempo e non aveva il vincolo delle belle arti. Quando io servivo messa, parliamo del '56 e del '57, una vita fa ormai, don Andrea s'impegnava per la chiesa di Buffalora anima e corpo. È stato lui a provvedere alla costruzione di ambienti nuovi, dalle Acli agli spogliatoi. Ma nel dopoguerra i soldi scarseggiavano e fu necessario vendere la sala. Inevitabile, purtroppo.

Dopodiché?
Dopodiché ci sono stati tanti proprietari, lì dentro c'è stato un po' di tutto, e alla fine la sala era ridotta a un vero disastro.

Riassumendo le varie fasi precedenti al restauro?
Era stata un'officina meccanica. Incubatoio per pulcini, artigianato per borse di pelle, fucina di fabbri per riparazioni di pese pubbliche... La sala era semidistrutta, dentro c'era un soppalco, le putrelle ai muri coi cornicioni rovinati... Uffici, magazzino, mensa per operai: nel 1998 era tutto dismesso, perché dopo la morte dei fratelli Ghidoni l'azienda era passata due volte di mano e le vedove avevano affisso il cartello «Vendesi».

Così si è fatto avanti. E la parrocchiale intitolata a Santa Maria Bambina a Buffalora dopo decenni di incuria ha ritrovato i suoi stucchi e le sue pitture.
Certo, ma non soltanto. Nel progetto iniziale c'era l'appartamento del custode, ma durante i lavori abbiamo trovato affreschi del '500 della scuola del Moretto, resti di un altare, nicchie murate. Del resto la chiesa non era nata come parrocchiale, ma come cappella privata di nobili. È stata donata fra diciannovesimo e ventesimo, regalando alla comunità di questa zona ad Est di Brescia qualcosa che non c'era: prima i fedeli dovevano andare a Sant'Eufemia, Caionvico o addirittura a Borgosatollo, erano costretti a fare chilometri per andare a messa.

Ha imparato a casa il senso della comunità?
Sì, presto. Io sono nato a Brescia il 9 agosto 1943, durante la seconda guerra mondiale. Famiglia di artigiani, mio papà era fabbro e riparava macchine agricole. Otto fratelli, 4 maschi e 4 femmine: io sono il più giovane, ero il cucculì della mamma... Ma anche l'ultima ruota del carro, come usava nelle famiglie numerose che non nuotavano nell'oro: avevo indosso i vestiti già usati dai fratelli maggiori, con le pezze.

Crescendo è diventato imprenditore con la Comear: allestimenti carroattrezzi e veicoli di vario genere.
Vero. Sono stato tra i fondatori di una società che ha reso orgogliosi noi Molinari. Io e un altro fratello, il più anziano, abbiamo ceduto l'azienda ai nostri figli a Montichiari. Una tradizione che può così continuare.

Avete ospitato anche Gorbaciov.
Sì, quando comandava in Russia e venne a visitare le aziende bresciane lo invitammo tramite il nostro commercialista: mille complimenti e un regalo, un minicarroattrezzi in argento. Ricordo un incontro di mezz'ora cordiale e piacevole. Per essere una figura politica tanto importante non si dava arie e fu gentilissimo, disponibile. Una soddisfazione che non si può dimenticare, uno degli episodi fortunati della mia vita imprenditoriale.

Una sua passione?
Sono collezionista di cose antiche, in particolare presepi con cui ho vinto e rivinto premi. Una passione tremenda: tutto quello che ho guadagnato l'ho speso in antichità. Per questo motivo nel parcheggio della sala Recaldini ho allestito il museo dell'arte e della tradizione contadina, quattro anni fa. È sempre aperto, in occasione dei vari eventi che organizziamo. Passione e fortuna, pure: nel giardino è stata trovata una tomba romana che risale al primo secolo dopo Cristo. Una scoperta notevole. E chi poteva immaginarlo? Oggi come oggi i motivi d'interesse per un visitatore sono tanti: ho messole reti di sicurezza sul campanile per consentire a chiunque lo desideri di salire e vedere l'effetto che fa. Dalla torre si gode di una vista incredibile, il panorama non può lasciare indifferenti. E può fare la gioia di ogni fotografo che si rispetti.

Fra i vari eventi ha appena ospitato la terza mostra di Paolo Parizzi, sulla promozione in Serie A conquistata dal Brescia Calcio nel 1980, alla presenza di tanti protagonisti indimenticati di allora come Lino Mutti e Lele Podavini, Sandro Salvioni e Astutillo Malgioglio...
Andavo sempre allo stadio Rigamonti, in gradinata, quando ero giovane. Ma mi sono spaventato nell'82/83 quando mi ha sfiorato una biglia e me la sono vista brutta. Il clima si era fatto un po' teso, non faceva più per me. Seguo sempre il Brescia, comunque, così come ho sempre tifato per il Milan fin dai tempi del grande Rivera. Stimo Parizzi per l'impegno, la passione e la serietà, Ha sempre organizzato eventi di valore alla sala Recaldini, compreso l'ultimo.

Mostre, concerti, presentazioni. Il prossimo evento?
A dicembre di sicuro ospiterò una mostra di pittura e scultura con artisti della zone di Bettole e Castenedolo. Mi piace l'idea di dare spazio a chi vive da queste parti e ha una creatività da esprimere compiutamente.

Tornasse indietro?
Mi rimboccherei le maniche e rifarei tutto, compreso il parcheggio sotterraneo. Era uno sfregio vedere un ambiente che mi sta tanto a cuore ridotto in quello stato. La sala adesso è una casa della cultura e la gratitudine della gente che incontro mi ripaga di ogni sforzo. Brescia è ricca di arte e di storia: se tutti facessero come me, a costo di spendere qualcosa di tasca loro, la nostra terra sarebbe ancora più bella.

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