INTERVISTA

Michele Masneri

La Silicon Valley secondo Masneri: «E se Steve Jobs fosse nato qui...»

Quale job per Jobs?Il gioco di parole è un capriccio - ma di capricci non è forse costellata la vita? La curiosità però è legittima - se la domanda è rivolta a chi ha scritto un libro come «Steve Jobs non abita più qui». Michele Masneri, giornalista del Foglio e scrittore classe 1974, bresciano di nascita e ormai romano adottivo, Milano Parigi Amburgo e San Francisco nel suo vissuto, gioca volentieri col quesito che se ne sta sospeso fra immaginazione e realtà. 

Se mr. Apple fosse nato a Brescia?
Avrebbe una super fabbrichetta che fattura di brutto.

Se fosse nato a Milano?
Avrebbe qualche possibilità in più di sfondare.

E se fosse nato a Roma?
Non farebbe niente: si godrebbe la vita.

Lei dove vive?
Fra Milano e Roma: vivo sul Freccia Rossa, costantemente in viaggio sulla carrozza del silenzio.

Condizione ideale per leggere, scrivere e sognare. Dove ha cominciato a prendere confidenza col mondo?
Sono nato a Brescia, in città, in via Porcellaga, zona Pam. Ma avevo 5 anni quando mio padre, che faceva l'architetto, ha deciso che voleva vivere in campagna e fare il contadino. Così ci siamo spostati a Calvagese della Riviera.

Luogo splendido.
Lo detestavo: ero un bambino strappato dalla città. A 14 anni sono tornato a vivere in città per frequentare le superiori.

La sua scuola?
Il liceo classico Arnaldo. Ma ero sempre al posto sbagliato al momento sbagliato: in campagna ero quello di città e mi prendevano in giro per questo, all'Arnaldo ero quello che veniva in corriera dal paese.

Come giocare sempre in trasferta: uno stimolo in più?
Sì, perché in questo modo da un altro punto di vista non sono mai veramente nel posto sbagliato. Per fare un po' di sociologia spicciola, ho imparato a osservare i contrasti. A Calvagese ero l'unico che non faceva religione a scuola, ma allo stesso tempo avevo uno zio vescovo. Cortocircuiti totali.

Finito l'Arnaldo?
Mi è venuta la balzana e un po' romantica idea di una carriera diplomatica. L'unica facoltà in questo campo in Italia era a Gorizia: mi sono impegnato al massimo per entrare, poi però il posto era micidiale e dopo 2 anni sono scappato a Roma.

Cosa non le piaceva?
Quello che si studiava. Il mio migliore amico andava a Roma: l'ho seguito senza pensarci troppo.

Primo impatto con la Capitale?
Come tutti i lombardi, sono rimasto folgorato. La luce, la bellezza, la leggerezza, una diffusa mancanza di fretta: per chi è cresciuto dove si lavora e basta il fascino è irresistibile. Sono rimasto intrappolato. Mi sono mantenuto facendo vari lavori, sempre più o meno nell'ambito della comunicazione. Un'attitudine che mi ha portato altrove: ho abitato a Parigi, ad Amburgo, lavorando per organizzazioni internazionali.

Cosa voleva fare da grande?
Dopo essermi laureato in scienze politiche ho fatto il concorso per la carriera di diplomatico. E sono stato bocciato, giustamente: non ero convinto io per primo. Uno dei professori era un consigliere di Andreotti: «Lei nun sa gnente ma scrive bbene... Deve fa' il giornalista».

Conta ancora, scrivere bene?
Guardano tutti i titoli, ormai.

Lei voleva scrivere?
In realtà sì, l'ho sempre voluto. Il fatto è che sogno troppo, sono un grande romantico. Volevo diventare diplomatico scrittore, frequentare quel mondo che avevo scoperto su Capital. Mio nonno, droghiere in corso Martiri della Libertà, era abbonato. Vivevo con mio papà contadino, non avevamo neanche la tv e un giorno mi ritrovo a leggere questa rivista patinata con articoli su tutti questi ambasciatori fighissimi... Volevo essere uno di loro.

Invece?
Ho iniziato a collaborare con Il Riformista, scrivendo di cose economiche. Mi mandarono a raccontare un evento in cui nasceva il partito di Montezemolo. Andai a questa presentazione molto romana e decisi di farne un pezzo di costume. Pensavo che me l'avrebbero bocciato. È piaciuto. Così ho iniziato a scrivere di ciò che mi piaceva leggere. Non di economia politica, ma di cultura e design, di società nelle sue stratificazioni: come cambiano le mode, come si evolvono gli usi.

Poi sono arrivati i romanzi: nel 2014 per Minimum Fax «Addio, Monti»; l'anno scorso per Adelphi «Steve Jobs non abita più qui» in cui racconta la sua esperienza nella terra della caccia all'oro, un reportage letterario lucido e disincantato sulla Silicon Valley durante la prima elezione di Trump. Entrambi sono stati accolti benissimo.
Parliamo comunque di una nicchia, di poche migliaia di copie, ma effettivamente l'ultimo è andato meglio del previsto nonostante la pandemia. Ho scritto di una figura mitologica per una casa editrice mitologica: non l'avrei mai pensato. Del resto io non vorrei mai entrare in un club che ammette gente come me.

Woody Allen concorda e ringrazia. Lei ha raccontato l'America delle contraddizioni, meta di cercatori di quell'oro che oggi è il lavoro. È così anche qui?
A Roma ho amici che non so che lavoro facciano. Non è un tema di conversazione, anzi sta male parlarne, è da maleducati. È la decadenza romana: il milanese mangia in piedi perché non ha tempo da perdere, poi magari se vai a vedere spesso lavora meno.

Ha descritto gli aspiranti startupper di San Francisco definendoli «brufolosi»: si può ancora in quest'era esasperatamente politically correct?
«Brufolosi» era divertente perché creava un contrasto all'interno dei giovani ambiziosi che raccontavo, la scelta era in quel senso. Ma io sono a favore del politicamente corretto. Qua regna lo scorretto, vendono di più i giornali che lo praticano, il #MeToo all'italiana prevede che siano redarguite le donne che denunciano. Siamo indietrissimo. Quando ho lasciato l'Italia pensavo di vivere in un Paese normale, invece negli Stati Uniti ho scoperto che non è così. Lì forse sono esagerati in senso opposto, ma qua siamo rimasti agli anni '50 per tante cose. Per fortuna la società sta cambiando e mi sembra migliorata, a Brescia come a Calvagese.

Cosa farà prossimamente?
Ho finito di scrivere il mio libro su Arbasino, «Stile Alberto» per Quodlibet. È la storia della nostra amicizia: ha esercitato una grande influenza su di me. Uscirà fra qualche mese. Tra pochi giorni, domenica 23 maggio, invece sarò a Brescia per la rassegna «Libri in movimento». Per chi è interessato, appuntamento alle 11.30 al Parco Gallo.

Scrive più volentieri un articolo di giornale o il capitolo di un libro?
Sono più sciolto se si tratta di quotidiani. Con il giornale hai l'illusione di poter cogliere gli attimi, mentre viene spontaneo pensare che un libro sarà per sempre. Nel giornale fai squadra, il libro è solitario. Un po' la differenza che passa fra calcio e tennis.

Mai come in questo periodo storico escono libri su libri. Quali media prenderanno il sopravvento: il nuovo che avanza o l'usato sicuro?
Ora c'è il fenomeno dei podcast, via di mezzo fra radio e scrittura. È la vecchia regola di McLuhan: nessun mezzo di comunicazione muore, semmai si trasforma.

La qualità è il futuro?
No, è il presente. È come per il cibo: un tempo il problema era nutrirsi, adesso tutti a dieta; una volta si cercavano informazioni, adesso ne siamo sommersi e per leggere gli inserti bellissimi che escono il weekend bisognerebbe mettersi in malattia. In un contesto del genere la qualità determina.

Il suo scrittore preferito?
Arbasino a parte, Gore Vidal: sapeva scrivere di tutto.

Se lei fosse un film?
«La dolce vita» di Fellini.

Una canzone?
«This must be the place» dei Talking Heads.

Un libro?
Ci devo pensare... «Viaggio in Italia» di Piovene.

E se fosse uno sport?
Uno sport per vecchi, come il golf o simili. Da praticare senza fretta.

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